Per ricordare Patrizia Cavalli, scomparsa a 75 anni – la voce più bella della nostra poesia contemporanea (tradotta in tutto il mondo) – vorrei partire da un ricordo personale, delle sue leggendarie cene con amici e persone a lei care (molti anni fa vi conobbi Elsa Morante, ma da quando Patrizia si era ammalata non ci eravamo più visti). Quelle cene, nella casa di Campo de’ Fiori, avevano qualcosa di esageratamente sontuoso, di sfrontatamente lussuoso: ricordo solo poggiata su un tavolo una enorme ciotola, quasi una zuppiera, ricolma di pinoli… Non perché fosse ricca. Tutt’altro. Non credo avesse mai lavorato né godeva di un reddito stabile: la sua sussistenza veniva assicurata dalla generosità di amici benestanti. Mentre la sua filosofia si potrebbe riassumere nella frase che una volta mi disse: “Più spendi e più ti arrivano i soldi!”. C’era qualcosa di anarchico e dissipativo in questa filosofia.

La sua poesia però era tutt’altro che dissipativa. Anzi, una geometria spinoziana delle passioni, un sapere antropologico in versi da tutti fruibile, una palpitante “commedia umana” che racconta meglio di tanti romanzi la nostra società di questi anni, in particolare le tonalità emotive e gli spostamenti progressivi del piacere entro questa società. Una poesia felicemente inclassificabile, o comunque difficile da collocare (anche perciò non dispone di una letteratura critica adeguata), priva di padri e modelli riconoscibili, anche se certo si potrebbero indicare alcune suggestioni (un nome per tutti: Sandro Penna, come lei umbro, e poi l’amica Elsa Morante, ma anche saggisti e filosofi contemporanei che frequentava, da Berardinelli ad Agamben, che la definì titolare di una “sapienza prosodica stupefacente”). Una poesia diaristica, di aforistica densità riflessiva, di settecentesca grazia, aperta al teatro: “Finalmente me ne andavo alla conquista / Di che cosa, avanti, dimmi, di che cosa? /Della sposa? /Ah questo no, non della sposa” (da Vita meravigliosa, 2020). Ricordo anche la sua attività di traduttrice del teatro, specialmente dei drammi shakespeariani e delle commedie di Molière. Di sé ha scritto: “Non sono nata per essere ragionevole…essere ragionevoli vuol dire adattare i propri pensieri a quel che gli è contrario… sono nata per essere felice”.

Ora, la sua poesia non è ragionevole però ragionante sì. E anzi ogni suo componimento ci ricorda che solo nella nostra tradizione “ragionare” è sinonimo di “poetare”. Certo, si tratta di un pensiero ben diverso da quello concettuale e speculativo, e anzi è continuamente innervato dalle emozioni, da una musica dell’anima. D’altra parte sulla origine probabilmente “malata” della stessa coscienza umana scrisse versi ironici e memorabili: “Io scientificamente mi domando / come è stato creato il mio cervello, / cosa ci faccio io con questo sbaglio. / Fingo di avere anima e pensieri per circolare meglio in mezzo agli altri / (…)” (da Poesie, 1999). Una volta volle esporre la sua personale poetica, che ha nobili precedenti teorici, ma che lei formulò con estrema limpidezza: nel linguaggio poetico, insieme moderno e arcaico, accade che il pensiero umano decide di essere preso per mano e guidato da quella cosa così primordiale che è il suono, e proprio in ciò riesce a produrre effetti strabilianti.

Anche se poi la sua utopia era una felicità smemorata, regressiva , liberata perfino dall’obbligo del pensiero: “Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente” (da Vita meravigliosa, 2020). Ognuno di noi ha un suo privato archivio di versi imparati a memoria, più o meno ampio. Di Patrizia Cavalli mi ridico spesso un verso stupendo, che comincia una poesia dedicata al mercato vicino, dove lei andava al momento della chiusura, tra mucchi di foglie di carciofi e frutta marcia, per godersi l’”occasione persa”. Il verso dice così: “Era alla luce terribilmente sabato” (da L’io singolare proprio mio, 1992).

Più recentemente era uscita una raccolta di prose – Con passi giapponesi (2019 Einaudi) – che delle sue poesie rappresentano un controcanto meditativo, dove si narra di case, soldi, bagagli, destino, scrittura, amore, morte…. E molti i ritratti: amici, gattare, genitori, sconosciuti… L’autrice intreccia profondità e svagata leggerezza di tocco. Straziante la pagina sulla madre, dopo una operazione che le toglie l’utero si ritira dal mondo, invecchia precocemente e si lascia andare del tutto. Alla fine somiglia a un cadavere: “Proprio lei, che avrebbe dovuto difendermi dal tempo e dalla morte, in un sol colpo mi conduceva impreparata a quella terribile visione…”. Lì Patrizia Cavalli apprende in modo traumatico la verità dell’esistenza, e avverte il passare del tempo come una rovina. Al tempo inteso come rovina e perdita si può opporre solo l’amore degli altri verso di noi, quasi garante della nostra esistenza.

Infine. La prima volta che la vidi fu in video, in una trasmissione televisiva del 1974 – “Settimo giorno”, condotta da Enzo Siciliano – , quando era uscita da poco la sua prima raccolta, Le mie poesie non cambieranno il mondo. In quell’occasione, ripresa nel soggiorno di casa sua, disse con un’aria da bambina impertinente, che il ‘68 era stato una immensa perdita di tempo! Ci ho pensato spesso. Quasi una sentenza beffarda, pronunciata proprio da chi amava vivere la propria vita come una gioiosa, estenuata, interminabile perdita di tempo, fino all’ultima, “terribile visione”: “Mi sveglierò domani. Ancora resto / nel lusso inconcludente del domani / E che farò domani? Spero niente. / Solo facendo niente ho il mio domani. / Adesso dormi però, e coscienziosamente” (da Pigre divinità e pigra sorte, 2006).