La Giornata della Liberazione e le diverse anime della destra
Chi era Piero Calamandrei, citato da Mattarella nel suo discorso del 25 aprile

Alla fine qualche piccolo passo verso la verità della Storia è stato fatto. Lo ha fatto Giorgia Meloni nella lunga lettera al Corriere della Sera quando scrive «il frutto fondamentale del 25 aprile è stato l’affermazione dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana». Parole scritte che se fossero state pronunciate alla Fosse Ardeatine o in qualunque altro luogo simbolo della Resistenza sarebbero state sicuramente più efficaci.
Ma è qualcosa, senza dubbio. Così come alla fine qualche passo verso la verità storica lo ha fatto anche la seconda carica dello Stato che, seppur nell’imbarazzo di quell’errore da matita blu (“l’antifascismo non è nella nostra Costituzione”) e nella provocazione di voler celebrare la Liberazione dell’Italia a Praga rendendo omaggio anche al martire del comunismo per eccellenza, Ian Palach, ha pronunciato parole inequivocabili: «Oggi è un giorno molto importante perché l’Italia celebra la liberazione dall’occupazione nazista della seconda guerra mondiale e la sconfitta del fascismo». E ancora: «Il valore assoluto della Resistenza è di aver superato la dittatura e nel ridare all’Italia la democrazia».
Chiarimenti, da parte di entrambi, certamente importanti. Ma possiamo anche dire il minimo sindacale dopo dieci giorni in cui il presidente della Repubblica in un lungo viaggio della memoria che è storia ma soprattutto presente non ha perso occasione per ribadire, come ieri a Boves, che “la Repubblica è fondata sulla Costituzione che è antifascista” e che il “25 aprile è la festa dell’identità nazionale”. Non diremo mai abbastanza grazie al capo dello Stato per come ha affrontato e gestito, partendo da lontano, questo primo 25 aprile con un governo di destra: presenza instancabile, parole nette come quando tra le baracche di Auschwitz ha detto: “I fascisti furono complici dei carnefici nazisti” e impegno costante nel “combattere gli araldi dell’oblio” e nel mettere in guardia da “odio e razzismo che sono sempre in agguato”.
Al netto di tutto questo però, né Meloni e tantomeno La Russa sono riusciti a fare quello che fece Gianfranco Fini a Fiuggi quando abiurò al fascismo dicendo che “è stato il male assoluto”. L’ex leader della destra italiana, sdoganato al governo da Silvio Berlusconi, pronunciò la fatidica frase a Fiuggi. E ancora tre giorni fa, intervistato da Lucia Annunziata su Rai3, ha rinnovato a Giorgia Meloni la raccomandazione a fare una cosa semplice: «Dica, perché so che lo pensa, che libertà, giustizia sociale e uguaglianza sono valori democratici, sono i valori della Costituzione e sono i valori antifascisti. Spero che colga questa occasione (il primo 25 aprile con un governo di destra, ndr) per dire senza ambiguità e reticenze che la destra italiana i conti con il fascismo li ha fatti quando è nata An». Vorrebbe dire anche ricucire uno strappo e mettere fine a un’ostracismo (rispetto a Fini) ingiusto e assurdo.
Ma in fondo è ancora questo odio fraterno il motivo per cui Meloni ha fatto ma solo in parte le cose suggerite da Fini e ha tentato, senza riuscirci, di chiudere i conti con la sua storia: non tanto lei ma il popolo a cui lei parla e che l’ha votata non se la sente di abiurare al fascismo così come rinunciare alla fiamma nel simbolo. E tante altre ambiguità come definire “una banda di musicisti” i tedeschi che scendevano per via Rasella (La Russa) e “italiani” gli antifascisti trucidati alle Fosse Ardeatine. Sono tentativi di riscrivere la storia che dimostrano come quella storia non sia stata ancora condivisa. Ha detto la staffetta partigiana Wanda Pagani, cento anni il prossimo 21 giugno: «Ma ci vuole tanto a dire che il 25 aprile è la festa della Liberazione dal fascismo? Meloni prenda una posizione più netta, le basterebbe dire: capisco l’antifascismo e onore ai partigiani che hanno lottato per eliminare un regime che ha danneggiato l’Italia». Non ci vuole tanto.
Ma se sei leader di un partito il cui zoccolo duro ancora non può pronunciare queste parole, non può rinunciare al simbolo della fiamma e a volte neppure alla mano destra alzata, allora più che non volerlo non puoi farlo. E provi a uscirne, come ha fatto la premier, con una lunga lettera che tra alcune affermazioni importanti (“i Fratelli d’Italia sono incompatibili con qualsiasi nostalgia fascista”) infila qua e là polemiche e dubbi. Ad esempio che “non tutte le componenti della Resistenza auspicarono la nascita di una democrazia liberale”, che non tutti lavorano al testo della Costituzione che doveva “unire anziché dividere”. Il primo 25 aprile con un governo di destra fa dunque qualche passo avanti verso la concordia nazionale e la condivisione dei valori fondanti e comuni ma non quanti avrebbe potuto farne.
Bisogna accontentarsi, restare vigili e plaudere alle distanze diminuite. I ministri hanno per lo più partecipato alle celebrazioni istituzionali: il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato alle Fosse Ardeatine con Maurizio Gasparri; il ministro della Difesa Guido Crosetto era con il capo dello Stato a Cuneo; il ministro Urso (“uniti nella memoria comune per riaffermare i valori della Costituzione in cui tutti ci riconosciamo”) è stato a Porta San Paolo con la comunità ebraica. Il vicepremier Matteo Salvini ha scelto una strada diversa e ha celebrato il 25 aprile a Firenze al cimitero militare Usa per rendere omaggio ai soldati caduti per liberare l’Italia. Scelta come sempre in controtendenza. Come altre fatte, e non solo dalla Lega, alla vigilia del 25 aprile. Che ha segnato un nuovo epifenomeno: una sorta di gara a favore della Resistenza, della Costituzione e dell’antifascismo da parte degli alleati dei Fratelli d’Italia.
La più decisa è stata senza dubbio la Lega che nasce con Bossi chiaramente antifascista ma poi ne ha perso l’abitudine nella gestione Salvini. Che invece ha arruolato ministri come Valditara e istituzioni come il presidente della Camera Fontana nel ruolo di alfieri dell’antifascismo. Fino a lunedì sera quando Silvio Berlusconi ha consegnato un messaggio con cui Forza Italia ha preso nei fatti le distanze dalle titubanze di Meloni e dei suoi fratelli. In un lungo messaggio il Cavaliere ha rivendicato la lezione di pacificazione che fece nel 2009 a Onna, in Abruzzo. «In quel piccolo comune teatro di una tremenda strage operata dai nazisti durante la guerra e che aveva subito profondi danni e gravi perdite per il terremoto, avevo rievocato lo spirito di unità nazionale che animò tutti i protagonisti della Resistenza che seppero accantonare le differenze più profonde, politiche, religiose, sociali, per combattere insieme una battaglia di civiltà e di libertà scrivendo una straordinaria pagina di storia sulla quale si fonda la nostra Costituzione, baluardo delle nostre libertà e dei nostri diritti».
Chissà in quanti, tra gli alleati, sapevano che la premier avrebbe scritto una lettera pubblica. È un fatto che anche Giorgia Meloni cita nella sua lunga lettera il discorso di Berlusconi a Onna e quel tentativo di chiamare il 25 aprile “festa della libertà”. Ma quella è stata una lotta di liberazione dal fascismo. Non solo di libertà. Come sempre hanno fatto chiarezza su tutto e tutti le parole di Mattarella. Che ha citato Calamandrei: «Se volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».
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