Con Salvatore Veca se ne va un mondo, molto milanese e molto cosmopolita, di sinistra convinta ma anche sempre molto lontana da fanatismi e ideologismi. Non dovette essere facile per il giovane Veca, nato a Roma e di origini meridionali ma ben radicato nella città ove aveva prima studiato e poi sempre vissuto, formatosi alla scuola di Enzo Paci e Ludovico Geymonat, affrancarsi non dico dalle chiusure dall’anacronistico e illiberale materialismo dialettico di quest’ultimo, che non fu mai il proprio, ma dall’idea stessa che Marx rappresentasse in qualche modo l’autore centrale in ogni impegno culturale e politico a sinistra. Al filosofo di Treviri egli dedicò studi e libri teoreticamente notevoli nella prima parte della sua ricerca. E in ottica marxista lesse pure il tema della fondazione e della modalità in Kant (l’idea di giustificare filosoficamente gli ambiti della ricerca gli fu sempre propria). L’affrancamento avvenne senza dubbio con la scoperta di John Rawls, più o meno a metà degli anni Settanta del secolo scorso.

Fu Veca, insieme a pochi altri (Marco Mondadori, Sebastiano Maffettone) ad introdurre in Italia quel filone di ricerca sulla giustizia allora dominante in area anglosassone e che sembrava dare alla sinistra una prospettiva più à la page rispetto a quella del classico “riformismo ambrosiano” con cui pure era facilmente integrabile e che, nello stesso periodo, rappresentò in qualche modo la cultura politica in cui si forgiò il craxismo. La grande illusione che Veca coltivò, soprattutto poi quando implose il comunismo e gli stessi comunisti italiani si trovarono allo sbando, fu quella di credere che il grande partito di massa potesse fare fino in fondo i conti con la sua tradizione e liberarsene sotto la guida degli intellettuali. A ben vedere, però, l’idea di una normatività morale della scienza politica, la ricerca di un’etica che la fondi, tutto ciò che è stato nel bene e nel male il rawlsismo, conservavano non pochi tratti di teologismo politico. Che Veca, con la sua acutezza e finezza intellettuale, con il suo tratto gentile e cortese, attenuava in mille modi: con l’innato buon senso; mettendo in tensione il lato normativo e prescrittivo con quello realistico e descrittivo (sempre attento a non ridurre la complessità del mondo); con l’interesse per autori in lato senso storicisti (da Collingwood a Oakeschott, fino a Bernard Williams). Che la sinistra potesse diventare tutta, anche quella di origine comunista, liberal fu appunto la sua illusione. Fu una pia illusione anche quella portata a sopravvalutare il ruolo dei filosofi, che nel nuovo contesto più non contavano come un tempo.

Quando il tentativo naufragò, Veca ne prese atto e si ritirò sempre più e intensamente nell’ambito degli studi: pubblicò libri, promosse traduzioni e ricerche, fu presidente di enti e fondazioni (soprattutto quella dedicata a Giangiacomo Feltrinelli dal 1984 al 2001), continuò con costanza la sua carriera accademica (fino a stabilizzarsi in quell’Università di Pavia, di cui fu per un periodo anche preside nella facoltà di Scienze Politiche). Non c’è dubbio che il tema della giustizia, e quindi della sua teoria, sia stato al centro dei suoi interessi e che esso si sia intrecciato in maniera spesso contraddittoria con quelli della libertà e del pluralismo che pure gli stavano a cuore. Nelle sue opere ricorre perciò spesso anche il nome di Isaiah Berlin, di cui fa propria sia la distinzione fra libertà positiva e negativa sia l’idea di pluralismo. Con due distinguo non inessenziali, però: poiché Veca intende sempre unire l’aspetto normativo a quello descrittivo, come abbiamo detto, la libertà positiva, intesa come partecipazione alla cosa pubblica e impegno, è posta sempre un gradino più in alto rispetto all’altra; il pluralismo a cui egli tende perde molto della sua intrinseca conflittualità, ben evidenziata da Marx, e tende a sottovalutare la forza che nella “società globale” (altro suo ambito di ricerca nell’ultimo periodo) hanno visioni del mondo contrapposte e non facilmente risolvibili. Né integrabili in una nuova idea di laicità.

La sua concezione resta perciò fortemente illuministica, come è dato osservare sia nella sua continua rivisitazione dei temi classici di quella stagione (Progresso, Laicità, Tolleranza) sia nella sua critica radicale del “romanticismo politico” che si legge nel volumetto Libertà pubblicato recentemente (2019) dalla Treccani. Non è che qui Veca abbia di colpo perso la sua capacità di cogliere le sfumature, o non tenga presenti le sue teorie sulla incompletezza e incertezza di ogni teoria. È che probabilmente in lui le ragioni del cuore, che batteva senza indugi a sinistra, erano altrettanto potenti di quelle della mente, che lo portava ad essere più scettico e disincantato. Non a caso, egli ha riflettuto molto anche su sentimenti e vita privata, arrivando a scrivere un volume divulgativo con Francesco Alberoni su L’altruismo e la morale (1988). E illuministicamente ritenne che compito dell’intellettuale restasse quello di emancipare, di portare a termine quel Progetto Ottantanove (per dirlo col titolo di un volume scritto con Alberto Martinelli e Michele Salvati nel 1989) che era partito con la grande Rivoluzione.

Della sua vasta bibliografia si possono ricordare anche: La società giusta (1982); Questioni di giustizia (1985); Etica e politica (1989); Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione (1990); Dell’incertezza (1997); La bellezza e gli oppressi (2002); L’idea di incompletezza (2011); Tolleranza. Le virtù civili; Un’idea di laicità (2013); La gran città del genere umano (2014); Il senso della possibilità (2018); Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista (2019) Ultimamente aveva riflettuto in modo non banale anche sull’idea di sostenibilità (Laboratorio Expo, 2015). Con lui scompare una figura civile di intellettuale, impegnato ma nel contempo indisponibile ad ogni compromesso con la politica urlata e con le dinamiche della cultura spettacolo.