La strage di via Fracchia e le torture: tante ombre sull’ex dc
Chi era Virginio Rognoni, a 98 anni se ne va il successore (più cattivo) di Cossiga
L’incontro con Virginio Rognoni, allora ministro degli Interni, scomparso ieri a 98 anni, lo racconterà anni dopo Marco Pannella. Erano entrambi a Montecitorio, di fronte al tabaccaio, e il leader radicale avvertì il ministro democristiano che la sera stessa, nel corso di una Tribuna autogestita con Emma Bonino, i radicali avrebbero mostrato in gigantografia le foto delle torture alle quali era stato sottoposto il brigatista rosso Cesare Di Lenardo. Pannella chiese anche all’importante esponente democristiano compianto oggi coralmente se fosse al corrente delle torture. Era il 1982. Lo Stato aveva già vinto la sua battaglia contro il terrorismo ma ancora non lo sapeva o non ne era sicuro. La risposta di Rognoni fu dunque gelida: «Questa è una guerra e il nostro dovere per difendere la legge e lo Stato, è coprire i nostri uomini».
La Tribuna andò regolarmente in onda. Tutti fecero finta di niente: erano moltissimi i bravi democratici che la pensavano come Virginio Rognoni, esponente di spicco della sinistra Dc molto vicino all’ex segretario Benigno Zaccagnini, dunque a Moro. Del resto quel “coprire” era probabilmente un eufemismo. Dopo il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, le pressioni di Washington sul ministero erano diventate martellanti. Uno dei principali dirigenti di polizia che lavoravano a tempo pieno sul sequestro racconterà trent’anni dopo, nel 2012, che il prefetto capo dell’intelligence del Viminale, prefetto De Francisci, convocò tutti e fu molto chiaro senza bisogno di fare nomi: «Ci dice che l’indagine è delicata, importante. Dobbiamo fare bella figura. Ci dà il via libera a usare le maniere forti. Indica verso l’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte sarete coperti, faremo quadrato». Le torture non avevano aspettato l’ostaggio americano. La squadretta di torturatori detta “Quelli dell’Ave Maria” e guidata dal professor De Tormentis era attiva già dal 1978. Il sinistro, al funzionario Nicola Ciocia lo aveva dato direttamente il dirigente dell’Ucigos Improta, con in mente la Colonna infame di Manzoni. Che il ministro non fosse al corrente della pratica lo si dovrebbe escludere.
Forse il termine “coprire” è più adatto al comportamento del ministro dopo la strage di via Fracchia, il 28 marzo 1980. Quella notte i carabinieri del generale Dalla Chiesa irruppero nell’appartamento nel quale dormivano 4 brigatisti e li uccisero. Per rispondere al loro fuoco, dissero, ma ai giornalisti che per primi entrarono nell’appartamento fu invece chiaro, come affermerà molti decenni dopo Giorgio Bocca, che erano stati fucilati. I cronisti scelsero di coprire la mattanza e in tutta evidenza lo stesso fece il ministro. Nella leggenda popolare il ministro degli Interni a capo della guerra contro il terrorismo è stato Francesco Cossiga. Non è così. Quando Cossiga si dimise, dopo l’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, il terrorismo era all’offensiva, lo Stato aveva subìto la sua più cocente sconfitta. Il compito di risollevare le sorti della battaglia adoperando il pugno di ferro se lo assunse Rognoni, un uomo discreto, gentile, universalmente lodato per la sua signorilità. Un democristiano diverso dalle star dell’epoca, che non mancavano di istrionismo, erano personaggi celebri, vistosi, conosciuti da tutti.
Rognoni no. Non si metteva in mostra. Era riservato, geloso della vita privata: un matrimonio durato 57 anni, fino alla morte della moglie Giancarla Landriscina conosciuta all’università, quattro figli, sei nipoti. A spingerlo ad accettare un incarico considerato allora ad alto rischio, succedendo a Cossiga, era stata proprio lei: «Hai scelto di fare politica: quel che segue lo devi accettare». Tuttavia fu proprio questo compassato signore a dare il via libera alle torture e a una guerra combattuta senza esclusione di colpi e senza pastoie legali. Nei guai il ministro ci finì una volta sola, nel 1980. Il primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci, aveva parlato di un leader di Prima linea figlio di un ministro, Carlo Donat-Cattin. Cossiga, allora primo ministro, avvertì il padre, ne venne fuori uno scandalo coi fiocchi, Rognoni finì nel tritacarne ma ne uscì indenne. Lo Stato scelse di coprire, in questo caso non per meriti di guerra. La verità, tanto per cambiare, la raccontò Cossiga molti anni dopo. Disse che il primo reato lo aveva commesso il ministro, mettendo a parte dell’increscioso caso il segretario della Dc Piccoli. Decisero di informare insieme Cossiga. Fu proprio Rognoni, “gigante di coraggio”, a chiedere a Cossiga di informare lui Donat-Cattin, con il quale il titolare del Viminale “non andava d’accordo”.
Rognoni vinse la guerra con il terrorismo e perse quella con Cosa nostra. O forse non la combattè oppure non potè combatterla. Gli allarmi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa, l’isolamento denunciato da quest’ultimo spedito a Palermo senza alcuna copertura da parte dello Stato rimasero lettera morta. Lo zu Totò chiuse la partita a colpi di kalashnikov. Nell’82 fu però lui a sostenere, firmare e far approvare la legge La Torre, nel frattempo assassinato, contro Cosa nostra. Dopo gli Interni Rognoni passò alla Giustizia, quindi alla Difesa. La tempesta dei primi anni 90, con la fine della Dc sembrava averlo spedito in pensione per sempre nel 1994, dopo 28 anni passati in Parlamento. Invece nel 2002 fu chiamato alla vicepresidenza del Csm, da dove fece muro contro ogni critica rivolta alla magistratura in perfetta consonanza con quella che era la linea del suo partito, La Margherita, e del partito di cui nel 2007 contribuì, con altri 11 saggi, a scrivere il “manifesto”: il Pd. Antifascista negli anni giovanili a Pavia anche se mai partigiano, giurista raffinato e colto, avvocato e docente, Virginio Rognoni è stato senza dubbio un democratico convinto e vicino all’anima più aperta e di sinistra dello scudocrociato. Ma è stato anche l’ultimo nella tradizione democristiana dei ministri degli Interni col pugno durissimo.
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