Le decine di migliaia di riservisti che da tutto il mondo partivano verso Israele, per aggiungersi all’esercito di popolo mobilitato a difesa del paese sventrato dai mostri del 7 ottobre, non si domandavano quanto fosse a destra il governo messo insieme da Benjamin Netanyahu; quanto fosse sbilenca la riforma della giustizia che aveva messo in cantiere; quanto fosse oltranzista il manipolo di ministri che rivendicava il diritto di sradicare gli ulivi dei palestinesi in nome della Bibbia; quanto fossero inadeguate le parole dell’altro ministro che annunciava il taglio dell’acqua e dell’energia elettrica per combattere gli “animali” del Sabato Nero. Partivano, quei riservisti, si infilavano la divisa e prendevano il fucile perché chi, da sempre, voleva distruggere Israele e uccidere gli ebrei aveva cominciato a farlo in quel modo osceno, promettendo di farlo ancora e ancora mentre un signore delle Nazioni Unite diceva che certe cose – “inaccettabili”, per carità – non vengono dal nulla.

Partivano e andavano a combattere perché sapevano che la sicurezza di Israele, lo spuntino in riva al mare, l’aperitivo in un bar Tel Aviv, le serate in discoteca, i giochi dei bambini nell’aia di una fattoria della Galilea, le chiacchiere dei vecchi in una stradina di Gerusalemme, la riunione nella saletta della start up che l’anno successivo avrebbe prodotto un altro gruppo di milionari, insomma la “vita” dei discendenti dei pionieri del secolo scorso, multiforme ma riunita lungo quell’orlo di Medio Oriente, non è “gratis”. Ha un prezzo. Il prezzo pagato da chi l’ha resa possibile e l’ha difesa per ottant’anni, combattendo cinque guerre che non dipendevano dai capricci dei primi ministri, come questa non dipende dalle brame sterminatrici di Bibi, ma dal fatto puro e semplice che gli ebrei non erano voluti nella terra che hanno acquistato e lavorato. Giusto come non erano voluti, ed erano perseguitati e cacciati, in ogni tempo, in ogni luogo e da ogni luogo in cui non avessero la forza, la determinazione, le risorse e le armi per difendere il proprio diritto di vivere. Quel luogo ha cominciato a esistere con Israele, e quei riservisti sono partiti per difenderlo sapendo che non c’erano altri a volerlo difendere.

In mesi dieci di guerra, durante i quali non pochi di loro sono morti, quei soldati sono stati descritti come la forza maligna che ha attuato la punizione collettiva, lo sterminio, il genocidio del popolo palestinese programmato dai vertici dello Stato terrorista, il tutto mentre le televisioni di mezzo mondo rimandavano i proclami del capo di quei macellai, Ismail Haniyeh, il miliardario protetto dal regime delle impiccagioni che richiedeva il sangue dei bambini come tributo santamente necessario alla vittoria sul nemico sionista. Per arrivare a ieri, con l’eliminazione di quella belva che finisce nelle accigliate disquisizioni del geopolitologo che lamenta la violazione della regola internazionale da parte dei guerrafondai israeliani. Si faccia attenzione. Non è assente una specie di apparente autismo nell’atteggiamento israeliano verso quel che si dice – da fuori – della guerra in corso. L’atteggiamento, cioè, di chi chiude le relazioni con una realtà percepita come nocivamente estranea. Ma ha una dose di giustificazione, quella chiusura. Perché, nonostante l’evidenza dei fatti, quella guerra, da fuori, non è vista né giudicata come la vedono e la giudicano gli israeliani e gli ebrei che, da tutto il mondo, si sono messi quella divisa e hanno preso quel fucile per andare a combatterla: una guerra contro Israele, una guerra che non è stata voluta né fatta da Israele.

Da fuori, è la guerra “genocidiaria” e terroristica contro i civili palestinesi, come certa stampa (non minoritaria) ha cominciato a scrivere quando ancora saliva il fumo degli ebrei bruciati vivi il 7 ottobre. Perché già nel pomeriggio di quel giorno le piazze d’Europa e d’America non si riempivano a difesa dello Stato ebraico aggredito, ma a celebrazione della “resistenza” che aveva cominciato a far pulizia degli ebrei dal fiume al mare. Piazze arcobaleno, o con i simboli di Hamas, a denuncia del “terrorismo” sionista: vale a dire l’attuazione sopraffattoria della pretesa giudaica che rinnega di aver meritato quel legittimo tentativo di rivolta contro un’usurpazione durata fin troppo. Quelli che, non solo in generale, ma anche in relazione al conflitto in corso, avessero motivi di rimostranza nei confronti delle scelte politiche ed esecutive israeliane, dovrebbero meditare molto seriamente su quanto abbiano chiaro il punto capitale. E cioè che il vasto fronte avverso a Israele non fa la guerra a Bibi Netanyahu, né a questo o quel ministro oltranzista né ai coloni violenti né, soprattutto, fa quella guerra per “liberare” chicchessia dal giogo della cosiddetta forza occupante. È la guerra per la distruzione dello Stato ebraico e per l’uccisione di tutti gli ebrei in Israele e nel mondo. E, se il mondo non lo capisce, Israele e gli ebrei non possono far altro che fare da soli. Come hanno sempre fatto.