Nei sistemi economicamente arretrati e di democrazia sottosviluppata gli investitori sono abituati a dover fare i conti con realtà di comando particolari: articolazioni dello Stato rivolte a respingere ufficiosamente le regole di mercato ufficialmente accettate, burocrazie irresponsabili che si frappongono mafiosamente a qualsiasi transazione rilevante, o direttamente militari che occupano o almeno controllano il governo e diventano gli interlocutori ineluttabili in ogni operazione d’investimento. Si tratta sempre di interposizioni giustificate da interessi preminenti: l’economia nazionale, i diritti del popolo, le acquisizioni rivoluzionarie. Tutte cose presidiate da un buon concerto di divieti e pizzi di Stato. Bene, vorremmo crederci lontani da quelle realtà: ma è abbastanza difficile crederlo quando si apprende che l’autorità giudiziaria ritiene di dover intervenire nella complessa vicenda di Taranto (così ha dichiarato il capo della Procura della Repubblica di Milano) mettendosi a presidio “dei livelli occupazionali” e delle “necessità economico-produttive” del Paese. È difficile credere, cioè, che in questo caso non si stia facendo come si è fatto in occasioni passate, purtroppo non poche, in cui l’intervento di giustizia si è caricato di funzioni che altri dovrebbero esercitare e in vista di scopi che altri sarebbero incaricati di perseguire. Perché fino a prova contraria i livelli di occupazione e le esigenze economiche e produttive del Paese non sarebbero faccende di processo giudiziario, ma politiche e di governo, e c’è da trasecolare quando il presidente del Consiglio, a proposito di questa iniziativa giudiziaria, non trova di meglio che dichiarare “ben venga”.
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Questo avvocato, questo professore (santiddio!), che a proposito dei presunti illeciti di ArcelorMittal dice che “di questo ne risponderà in sede giudiziaria”, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di come possa ancora funzionare un Paese in cui, magari anche in buona fede, ma pericolosamente, esponenti dell’autorità giudiziaria rivendicano a sé quella funzione e pretendono di esercitarla per perseguire quegli scopi. Lo fanno senza sosta, senza incontrare non si dice contestazione ma nemmeno qualche riscontro perplesso, e anzi tra gli applausi spiegano che la magistratura “combatte” non più solo la corruzione domestica (che già è uno sproposito perché il magistrato deve applicare la legge e sanzionare gli illeciti, punto e basta) ma il crimine internazionale «che ha sostenuto regimi corrotti e dittatoriali» e «che incide direttamente o indirettamente sulla popolazione dei Paesi coinvolti, razziandone le risorse necessarie allo sviluppo socio-economico e peggiorandone, di conseguenza, le condizioni di vita» (così, giusto qualche settimana fa, ancora il dottore Francesco Greco). Procure combattenti, insomma. Nessuno dubita del fatto che sostenere regimi dittatoriali sia cosa pessima e nessuno nega che sia cosa ottima lavorare per il miglioramento delle condizioni di vita altrui: ma quella cosa pessima non si combatte con un’iniziativa giudiziaria e questa cosa ottima non si ottiene a suon di processi. E non per altro, ma perché nelle democrazie capaci di chiamarsi tali si è compreso da tempo che ai magistrati spetta un compito diverso, un compito che non ha niente a che fare con le determinazioni sull’indirizzo indirizzo politico del Paese.
Mentre esattamente questo si fa, esattamente questo si pretende, quando l’attivazione di una iniziativa giudiziaria vuol giustificarsi con il proposito di tutelare roba come i livelli occupazionali o le esigenze economiche e produttive del Paese: si piega l’azione del magistrato verso un obiettivo improprio e si pretende che il processo sia il legittimo strumento per raggiungerlo. I danni che un’analoga impostazione ha arrecato al nostro sistema politico e istituzionale li abbiamo visti e li stiamo soffrendo ancora, e sarà solo un caso se la concezione di potere che li ha determinati a suo tempo è impersonata dagli stessi che oggi hanno in agenda di continuare il combattimento su quest’altro fronte. E tutto questo, si noti, nulla toglie e nulla aggiunge all’ipotesi che nel caso ArcelorMittal ci siano illeciti da accertare. Ci saranno pure. Ma è viziata la premessa da cui si parte per accertarli, e il vizio risiede nell’idea sistematicamente micidiale che il magistrato sia incaricato di intraprendere politiche di governo per via giudiziaria: tanto più temibilmente quando il governo, come in questa occasione, fa mostra di accogliere se non di sollecitare una simile usurpazione. All’investitore desideroso di far qualcosa di importante qui da noi che cosa dobbiamo spiegare? Che deve sottoporre alla Procura della Repubblica il suo piano di investimenti? Non sarebbe molto diverso rispetto a quel che fa abitualmente in qualche Repubblica delle banane, con la differenza dopotutto non significativa che qui non dialogherebbe con un colonnello che dà il permesso di aprire fabbriche ma con un signore togato che ha il potere di chiuderle….