Il caso a Trento
Chi ha un parente in carcere non può avere la casa
«Si tratta di una misura educativa». Così ha sentenziato il presidente della giunta provinciale di Trento, Maurizio Fugatti, prima di apporre la propria firma su un disegno di legge che è stato poi votato dal consiglio, sui criteri di assegnazione degli alloggi popolari. I soggetti che il presidente trentino e la sua maggioranza vogliono rieducare sono interi gruppi familiari (non si sa fino a quale grado di parentela) che abbiano al loro interno una persona condannata a una pena superiore a cinque anni. Tutti costoro – si suppone padre, madre, figli e nonni, forse anche gli zii – non potranno mai avere una casa popolare in provincia di Trento. Meglio cambiare aria, se si è senza abitazione.
La logica “rieducativa” è un po’ simile a quella di coloro che non volevano fosse dato il reddito di cittadinanza a ex condannati per reati di terrorismo, neppure dopo che avessero scontato la pena e neppure se fossero in possesso di tutti i requisiti per poter accedere alla misura. Tralasciando per un attimo la totale incostituzionalità di un provvedimento che estende ad altri una sorta di pena accessoria che potrebbe al massimo riguardare un solo soggetto, esaminiamo la ratio della decisione della provincia di Trento. All’interno di questa filosofia “rieducativa” c’è la stessa logica che sta alla base dell’erogazione della pena all’ergastolo e sotto sotto anche alla pena di morte. Il punto di partenza consiste nello scattare una fotografia alla persona nel momento del fatto criminoso e poi fissarla per sempre in modo immutabile. Come se non esistesse il trascorrere del tempo, come se la persona non potesse cambiare mai, neppure dopo aver scontato la pena. Ti punisco non solo per quello che hai fatto, per il tuo comportamento, ma anche per come eri, come sei e come sempre sarai. Tu per me istituzione sei un fantasma, un morto vivente privo di diritti. Per esempio, se sei povero e hai i requisiti per avere il reddito di cittadinanza, faccio di tutto per non dartelo anche se l’Inps mi dice che hai le carte in regola.
È quel che è capitato nei mesi scorsi quando qualche benpensante ha scoperto che fruiva di questo beneficio Federica Saraceni che, in seguito a processi con sentenze contraddittorie, era stata condannata per un grave reato di terrorismo. Viveva da sola agli arresti domiciliari con due bambine, in situazione economica precaria. I benpensanti ritenevano di avere il diritto di erogare una pena accessoria, oltre a quella già inflitta dalla corte d’assise, che consisteva in una sorta di pena di morte: io Stato, io istituzione, non ritengo che tu e le tue bambine dobbiate avere la possibilità di continuare a vivere. Non avete soldi? Arrangiatevi. Per fortuna, non solo di Federica Saraceni, ma di uno Stato in cui ogni tanto si rispettano i principi costituzionali, né il governo Conte primo né il Parlamento che aveva votato il reddito di cittadinanza si erano resi conto che il provvedimento dal sapore demagogico aveva in sé anche un po’ di umanità e di sensatezza.
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