Siamo a quarantanove, sette suicidi nei primi dieci giorni di agosto. L’ emergenza carcere andrebbe trattata come quella del contagio da covid, per non trasformare gli istituti di pena, che sono già pattumiere, in lazzaretti, luoghi dove si va solo a morire. Altro che rieducazione! Le ultime due persone a essersi tolte la vita erano a Napoli, rispettivamente a Poggioreale e Secondigliano. Colpisce la storia di Francesco, malato di anoressia, pesava 43 chili, detenuto per piccoli reati e con un fine pena al 2024. E l’interrogativo è ormai uno stanco ritornello: perché l’ltalia, paese di eroi e di santi, non può essere come la Svezia, dove negli scorsi anni molte carceri sono state chiuse per carenza di detenuti? O come la Norvegia, dove l’80% delle pene è alternativo alla privazione della libertà?

Ci vorrebbe proprio un grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Che sappia cogliere le occasioni delle due grandi ondate di calore di questo agosto, quella del meteo e l’altra della politica e delle elezioni anticipate. Che sappia trasformare l’emergenza di questi 49 suicidi in una corsa ai ripari almeno quanto lo fu, all’inizio del 2020, l’allarme per l’epidemia da covid. Quando, a dispetto di quel che andava dicendo il procuratore Gratteri (“le carceri sono il luogo più sicuro”), ci fu una vera mobilitazione per lo svuotamento di luoghi che sono già patogeni in tempi normali, e figuriamoci con un’epidemia in corso. Ma, mentre nessuno esitava a chiamare “eroi” i medici e tutto il personale sanitario in lotta contro il virus assassino, in pochi si sono accorti di un’altra forma di eroismo, quella dei giudici di sorveglianza. Erano stati loro per primi, e prima ancora che il governo e il procuratore generale si rendessero conto della strage che era già sulle porte delle carceri, a destare scandalo con i loro provvedimenti di alternativa alla prigione. Si, furono “scandalosi”, quei giudici e quei tribunali di sorveglianza. E lo pagarono caro, con dileggi, insulti e richieste di interventi disciplinari nei loro confronti. Tanto che un giorno tre di loro furono costrette a chiedere al Csm una pratica a tutela. Agirono a mani nude, prima ancora che l’ineffabile ministro Bonafede facesse il proprio dovere con i decreti “Cura Italia” e “Ristori”, per mandare a casa almeno tutti coloro che avevano ancora da scontare meno di 18 mesi di pena. Non proprio tutti, a dire il vero, perché quelli del 4 bis ne erano esclusi, proprio come coloro che avessero avuto un procedimento disciplinare, che in genere erano gli stranieri e i poveri. Ma i giudici e i tribunali di sorveglianza avevano tenuto duro sui principi costituzionali. E li avevano applicati a tutti, indistintamente. E poi, seguendo anche la decisione della Consulta che aveva esteso la possibilità di permessi premio anche ai condannati al cosiddetto ergastolo ostativo, avevano interpretato in modo diverso il concetto di “pericolosità sociale”. Senza lasciarsi intimidire dalla forsennata campagna di stampa sulle scarcerazioni facili di boss e delinquenti abituali. Lì era anche saltata la testa del direttore del Dap Francesco Basentini, per la famosa circolare, sollecitata proprio dagli interventi dei giudici, per la concessione di provvedimenti di sospensione della pena per le persone anziane e malate. Il capo del Dap perse il posto, Bonafede fu messo alla gogna e i giudici esposti a processi popolari in cui venivano chiamati con nome e cognome come “amici dei mafiosi”. La Repubblica, peggio ancora del Fatto quotidiano, strillava che tre o quattrocento boss erano in libertà, quando in realtà, tra sospensioni della pena e detenzioni domiciliari, non più di tre usciti dalle mura carcerarie erano detenuti per reati connessi alla mafia. Ma la primavera del diritto e della salute durò poco.

Decreti e circolari furono presto ritirati e nell’ottobre i detenuti in carcere erano già passati da 52.800 54.800, duemila in più. Nessuno era scappato, tutti si erano fatti ri-arrestare, docili come agnellini. Ma i problemi sono rimasti. E’ facile dire “sovraffollamento”, senza domandarsi come nasce. Perché basterebbe sommare quel quarto di detenuti in attesa di giudizio che poi verrà assolta a quell’altro quarto che è fatto di soggetti fragili, cioè tossicodipendenti, anziani, malati (soprattutto psichici), portatori di handicap, per ridurre in modo considerevole l’affollamento. E salvare molte vite. Che senso aveva il carcere per Donatella? Crediamo che i giudici abbiamo fatto tutto il possibile per lei, anche se il dottor Vincenzo Semeraro ha ripetuto con angoscia “So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più”. No, dottor Semeraro, probabilmente lei ha fatto tutto quello che le competeva. Ma Donatella non doveva stare in prigione, proprio come l’anoressico Francesco.

Ma che cosa si può fare, adesso? Certo, possiamo continuare a denunciare che ci sono tutte le carenze di personale, in particolare di psicologi e psichiatri, soggetti fondamentali per il trattamento dei detenuti. E mancano 18.000 agenti, come denunciano da tempo i sindacati, e lo hanno ripetuto ancora ieri, dopo i due suicidi a ridosso della circolare del Dap dell’8 agosto. Ma, ironizza Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa polizia penitenziaria, che pure quella circolare condivide nei contenuti, “mentre il medico studia, il paziente muore”. Che cosa fare dunque nell’immediato? Prima di tutto quel che abbiamo già detto e ripetuto, lasciare grande spazio all’affettività, con ampliamento di possibilità di visite e telefonate con i parenti. Poi quel che aveva raccomandato l’ex procuratore generale Salvi ai suoi colleghi pm e gip: meno ricorso alla custodia cautelare in carcere. E poi un appello ai tribunali e ai giudici di sorveglianza: siate ancora “scandalosi”, come ai tempi dell’epidemia. Perché 49 suicidi in poco più di sette mesi sono uno scandalo. Siate voi dunque i primi protagonisti di questo grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Non possiamo aspettarcelo dalla politica. Soprattutto in questo momento.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.