Salvate il soldato peone. Per un’intera settimana i “grandi elettori” anonimi hanno ricevuto i più acuminati strali dell’antipolitica, sono stati proposti all’opinione pubblica come dei nullafacenti che gozzovigliavano per i ristoranti vicini alla Ztl del potere, senza riuscire a svolgere il loro compito: eleggere un nuovo capo dello Stato. Mancava poco a che nei talk show si proponesse la decimazione. Come se fossimo tutti nati ieri, si sono sentite, nelle maratone dei passi perduti, frasi prive di senso come questa: “Hanno avuto sette anni per pensarci, si sono ridotti a farlo all’ultimo momento?”; come se non fosse sempre stato così e non ci si rendesse conto di quanto sia stata scombinata la XVIII legislatura, proprio per responsabilità primaria di quanti hanno esercitato, il 4 marzo 2018, il diritto di elettorato attivo.

Che cosa altro avrebbe potuto fare un esercito sbandato, consapevole dell’inadeguatezza degli stati maggiori, privo di ordini che non fossero la diserzione dal seggio o la scheda bianca? Anzi, se non fosse stato la modalità di queste espressione di voto rischiava di essere eletta una signora Bianca Scheda, purché cinquantenne. Qualche grande elettore si è concesso un po’ di cazzeggio goliardico. Eppure tra i suffragi per Amadeus o per qualche attrice o per il vicino di banco (nessuno ha definito “nano maledetto” un candidato non gradito), vi è stato chi ha dato un voto che denotava un bel po’ di consapevole perfidia. Mi riferisco a chi ha scritto “Nitto Palma” sulla sua scheda quando era in corso la “spallata” (con relativa lussazione) a favore della presidente Elisabetta Casellati, essendo noti i dissapori che esistono tra la personalità che ricopre la seconda carica dello Stato e il suo capo di gabinetto.

A pensarci bene, la “congiura dei peones” non ha sbagliato una sola mossa, sia pure con protagonisti diversi ma tenuti insieme dalla medesima intelligenza strategica. I congiurati hanno agito al momento giusto, approfittando lucidamente degli errori dei loro capobastone. Nel caso della canditura della presidente Casellati non si sono soltanto limitati a non aggiungere quel pacchetto di suffragi in più che Matteo Salvini aveva garantito agli alleati, ma hanno fatto chiaramente capire che sarebbe stato inutile insistere o provare con altre proposte simili. In quella votazione non era in ballo solo il profilo della candidata, ma la tenuta della maggioranza (quello di Salvini era stato veramente un sgarbo nei confronti degli altri gruppi) e la continuità del governo e della legislatura. E a questo punto è doveroso fare i conti con un altro luogo comune più volte ribadito anche nell’ultima settimana: “Costoro pensano solo a salvarsi il posto ancora per qualche per riscuotere lo stipendio e la pensione”.

Sarà anche vero; ma non vi è stato, in questa vicenda, alcun conflitto tra interesse dei parlamentari attaccati alla poltrona e quello del Paese. Non sarebbe stata sicuramente un prospettiva migliore quella di sfasciare tutto nell’anno in cui – cosa che non è ancora avvenuta – il Pnrr deve “atterrare” nella realtà, il ciclo economico potrebbe invertirsi determinando il superamento di una politica monetaria e di bilancio espansiva, la pandemia potrebbe riservare altre sorprese, soffiano venti di guerra nel cuore dell’Europa. Ma il vero capolavoro è emerso nella sesta votazione, quando, dopo il flop della presidente Casellati in quella precedente, Sergio Mattarella ha ottenuto una valanga di voti (336) benché gli ordini di scuderia, di vari gruppi, fossero diversi. Poi nell’ottava votazione si è verificata un’incomprensibile discrepanza tra gli stati maggiori e il collegio elettorale. Le aperture dei telegiornali, mentre erano in corso le operazioni di spoglio, annunciavano che si era trovata l’intesa su di una presidente e lanciavano – con orgogliosa sicurezza – il nome di Elisabetta Belloni, ne tracciavano il profilo e ne esaltavano la novità.

Mentre le immagini scorrevano sugli schermi e le parole dei conduttori – a partire dall’infortunio di Enrico Letta che ha azzardato persino una percentuale (il 99%) – continuavano con la solita solfa, compariva in sovraimpressione che Sergio Mattarella aveva ottenuto 386 voti, senza essere portato da nessuno. E a questo punto, sarebbe bastata un po’ di intelligenza per capire che, se qualcuno dei capataz non si fosse assunto la paternità di quella candidatura, Mattarella i peones lo avrebbero eletto da soli. Nulla da fare. I leader hanno trascorso un’intera notte a gettare nel tritacarne altri nomi (le cronache hanno riportato quelli di Casini, Cartabia, Severino, sui quali non si è trovata l’intesa) fino a quando non hanno deciso di arrendersi e di mettere l’operazione nelle mani di Mario Draghi. Pierfurby è uscito dalla trappola con eleganza. Il resto lo conosciamo. Magari è il caso di cominciare a riflettere sulle conseguenze della “settimana del loro scontento”; che poi è finita bene, perché lassù qualcuno ci ama. In primo luogo i leader dei partiti devono assumersi le loro responsabilità senza gettare la palla sulle gradinate.

Non ha alcun senso prendersela con il metodo di elezione e proporre di passare al suffragio popolare diretto. Su quest’argomento ha ragione il neo presidente della Consulta (altro ottimo evento la sua elezione) Giuliano Amato: «Non può essere vista come qualcosa che da sola si innesta in un sistema lasciandolo così com’è. I sistemi costituzionali sono come orologi. Le rotelle sono tutte collegate e l’orologio funziona se gli ingranaggi si incastrano. L’elezione diretta del capo dello Stato presenta benefici perché avviene in un giorno. Ma non puoi trasferirla così com’è in un sistema”. In sostanza, smettiamo di trattare la Costituzione come un Frankestein di norme purchessia. Come quando si è ritenuto di passare dalla Prima alla Seconda Repubblica grazie a una nuova legge elettorale. Se il presidente deve rappresentare l’unità nazionale – e non una parte politica – è molto meglio un processo di mediazione tra i partiti, come poi è sempre avvenuto, a volte anche in modo più complesso che con l’elezione del tredicesimo capo dello Stato. Poi è bene convincersi che le istituzioni sono organismi vitali, e come tali evolvono nel tempo, senza perdere la loro natura.

Il secondo mandato di Mattarella è pienamente legittimo, ma introduce un elemento di forte novità; perché è chiaro che il neo presidente ha davanti a sé altri sette anni durante i quali intende svolgere le funzioni a cui è stato chiamato. Prosegue dunque una fase politica che è iniziata con un sodalizio (Matterella-Draghi) che potrebbe essere definito come un semipresidenzialismo biunivoco, caratterizzato da una linea politica comune, in grado di mettere in sicurezza, a lungo, il Paese. Mario Draghi resta a Palazzo Chigi, ma ha le spalle coperte dal Quirinale. In queste condizioni il premier dovrebbe fare un pensierino in vista delle prossime elezioni, soprattutto se si tornerà finalmente a un sistema proporzionale dopo decenni sprecati con un bipolarismo innaturale in un paese come l’italia. Perché non una lista Draghi?

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Gentile Direttore,
leggo sul giornale da Lei diretto che il voto “Nitto Palma” accordatomi nella quinta votazione sarebbe frutto della perfidia anticasellati del/la votante e correlato ai “noti dissapori” esistenti tra me e il Presidente del Senato. Al riguardo, desidero affermare con forza che non esiste alcun dissapore tra me e il Presidente del Senato (cui mi lega una amicizia ventennale), come dimostrato dal fatto che continuo tranquillamente a svolgere il mio incarico a Palazzo Giustiniani pur non percependo retribuzione alcuna. Aggiungo, per quel che vale, che nutro profonda stima per le capacità del Presidente Casellati.

Cordiali saluti.
Dott. Nitto Francesco Palma
Capo di Gabinetto

del Presidente del Senato