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L'intervista
Chiara Danieli, European foundry federation: “Green Deal? Alle imprese serve tempo. I cinesi ci stanno invadendo e l’industria non è uniforme”
«Alle imprese serve del tempo. Non è possibile che l’Europa ci imponga delle regole e pretenda dei risultati dall’oggi al domani». Assodato che un’inversione a U delle politiche green è impraticabile, la nuova Commissione Ue dovrà assumere un atteggiamento più realistico, per come la transizione ecologica possa procedere con e soprattutto grazie all’industria manifatturiera. «Senza di noi, la decarbonizzazione non è possibile». A dirlo è Chiara Danieli, Presidente della European foundry federation (Eff), l’associazione europea delle imprese di fonderia: 6mila aziende in tutta Europa, per un totale di 40 miliardi di euro di fatturato e 26 mila dipendenti.
Presidente, le fonderie forniscono filiere produttive differenti tra loro: dall’automotive al navale, passando per l’eolico e il nucleare. Chi tra queste è più virtuosa nel processo di decarbonizzazione.
«Pur con le rispettive differenze identitarie, sono tutte sullo stesso piano. Direi piuttosto che ci sono delle differenze tra paese e paese. Italia e Francia, per esempio, si sono dimostrate più ricettive alle norme Ue. Tuttavia, in altri casi c’è chi è stato più rapido. Penso alla Romania, che ha applicato il reporting di sostenibilità per le imprese prima di chiunque altro. Non c’è nulla di male. È una caratteristica dell’Europa quella di avere i governi nazionali che decidono quali tempi dare alle aziende per mettersi in regola».
Da italiana trapiantata in Francia (Chiara Danieli è alla guida del Groupe Bouhyer, fonderia specializzata nella produzione di contrappesi per macchine di sollevamento, tra cui gru per pale eoliche, campi di pannelli solari e grandi cantieri, ndr) come si spiega queste differenze?
«Purtroppo le decisioni non vengono prese né dal mercato né dalle imprese. È l’interesse politico di figurare come protagonista a Bruxelles a spingere i governi nazionali a essere il primo nel fare le cose».
Così siamo però lontani dalla coesione che ci serve.
«Il nostro handicap è non avere un’industria uniforme. C’è un paese specializzato in un settore e un altro che primeggia in una filiera differente. C’è chi importa dalla Cina e chi no. Chi si fornisce di gas russo e altri che hanno puntato sul nucleare. Viviamo in un Continente fatto di interessi discordanti, per i quali trovare il minimo comun denominatore è complesso. D’altra parte non vedo soluzioni alternative. L’Europa deve avere una sua industria».
Tuttavia, cosa sta succedendo?
«In questi ultimi cinque anni, il Green Deal ha posto sfide importanti all’industria europea senza difenderla dalla competizione di chi queste regole non le segue. Non ci si è resi conto però che, senza l’industria, qualsiasi progetto di sostenibilità è illusorio».
In che senso?
«L’industria sta investendo molto nei processi di produzione. Pensiamo alle energie rinnovabili e al controllo delle emissioni di CO2. Ma quel che più conta è che dai nostri stabilimenti escono quegli strumenti necessari a innescare questo ciclo virtuoso».
Per esempio?
«Tra le imprese della Eff, ci sono fonderie specializzate nella realizzazione di pale eoliche, oppure particolati per le centrali nucleari. Senza le fonderie non si potrebbe pensare al completamento della transizione energetica. C’è poi il discorso dei rottami».
Ovvero?
«Le fonderie sono protagoniste insostituibili nel riciclo e recupero dei metalli. Operazioni fondamentali per l’economia circolare».
Posto che no industria no green, voi cosa chiedete?
«Più tempo. Nell’adozione delle direttive e dei controlli, non è possibile pretendere applicazioni e risultati immediati. In questi anni, sono state imposte alcune soglie e parametri proibitivi, per i quali talvolta è necessaria una tecnologia non ancora disponibile sul mercato. Quello che non ci riesce di fare non è perché non vogliamo farlo, bensì perché non sempre esistono strumentazione o know how ancora disponibili».
Più tempo in che termini?
«Le direi quattro anni, ma è ben più importante l’approccio. Una volta varata una norma con delle scadenze, mi aspetto che non la si riveda a treno in corsa. Non è plausibile che le imprese siano soggette a controlli su controlli, effettuati prima delle scadenze stabilite, che rallentano e confondono».
Il tutto senza calcolare gli imprevisti.
«Quello che sta succedendo nel mondo dev’essere messo in conto. Dalla crisi cinese a quella del mercato immobiliare. Così come i nostri investimenti ne sono condizionati, altrettanto i decisori politici non possono muoversi secondo logiche rigide».
Vi serve che l’Europa stia dalla vostra parte.
«L’Europa deve difendere i nostri confini. I cinesi ci stanno invadendo su ogni fronte. Dalla materia prima all’energia. Gli strumenti adottati finora stanno tornando utili. Penso ai dazi e al Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism, il meccanismo di controllo sulle emissioni di carbonio dei prodotti importati da paesi extra-Ue, ndr). Ma bisogna andare oltre. Come stanno facendo Canada, Stati Uniti e la stessa Cina. L’Europa è la sola rimasta a giocare secondo delle regole che non segue più nessuno. Questo significa compromettere la nostra economia».
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