I luoghi comuni sono, nella normalità della vita quotidiana, veicoli di verisimiglianza, e quindi di quella saggezza a buon mercato più o meno condivisa o condivisibile da tutti; tanto da costituire, in quanto dottrina di tali luoghi, un settore fondamentale della retorica come tecnica della persuasione, ossia la topica: una sorta di magazzino di argomenti verificati da lunghissimo uso efficace.
Il problema, però, si pone quando si sfonda il confine della normalità. Allora i ‘luoghi’ mostrano il loro limite applicativo fuori dallo spazio disegnato dall’abituale “si fa”-“si dice”. L’epidemia che stiamo vivendo mette radicalmente in crisi il vecchio detto “mal comune mezzo gaudio”: in casi simili è proprio il comune epidemico ciò che atterrisce. Ciascuno desidera per se e i suoi cari l’immunità come rimedio alla comunità infettiva. Il “bene comune” cambia il riferimento fondamentale all’essere fruito in comune: per restare comune deve negare la comunità.

Perciò, finalizzata all’interruzione del contagio, l’azione di governo, in questa ottica, mira a interrompere, per quanto possibile, il tessuto di relazioni che veicolano il virus: interruzione che interessa anche le amicizie e le parentele più strette. Si potrebbe dire che l’essere, l’uomo, per natura animale relazionale sia utilizzato dalla natura per aver ragione di questo suo prodotto eccentrico, nonché sovrabbondante e nocivo ormai per la propria conservazione. Non proprio la stessa cosa potrebbe dirsi, invece, per “mors tua vita mea”, perché, se, di certo, da un lato “mors tua” è un segnale di pericolo anche per “vita mea”, dall’altro lato tuttavia, il topos, riacquista vigenza prospettica laddove si divida la popolazione in diverse fasce d’età.

La morte dei vecchi comporterebbe, infatti, superato il male, un esonero per la società e per le nuove generazioni. E questo virus sembra operare proprio in senso tendenzialmente geronticida, tanto da poter apparire un ulteriore correttivo naturale all’allungamento “eccessivo” della vita umana dovuto agli artifici della tecnica. Dunque, da questa angolatura che potrebbe anche dirsi spinozianamente indifferente al bene e al male come categorie umane, il virus potrebbe apparire nella sua gelida, anaffettiva configurazione di natura immediata e brutale, di fronte alla quale crollano le arroganze della progenie di Prometeo. Ma che succede da un punto di vista “culturale”? Possiamo dire che questa catastrofe, che espone la fragilità antropologica anche del nostro mondo ultratecnologico, una volta passata, ci permetta di tornare a quella che noi consideravamo un’indisponibile normalità? Questa secondo me è la domanda che tutti dovremmo porci: l’esperienza corona-virus che cosa insegna al mondo nell’attuale configurazione della globalizzazione?

Due tipi di ottimismo sono da considerare con sospetto: 1. Che tutto torni come prima; e ciò per l’Italia, in particolare, sarebbe esiziale per la dilacerazione abietta e futile a cui si è lasciata andare; 2. Che tutto magicamente cambi e si torni a una vita più equilibrata tra le diverse esigenze della sfera pratica, con un riconoscimento alla politica e alle competenze a lei peculiari del ruolo utile alla buona convivenza. La storia darà la risposta. Ma è bene ricordare che la storia siamo noi a farla. Credo perciò che sarà importante se da questa catastrofe uscisse fuori un “noi” capace di rendere “buono” il senso comune di diffusa insoddisfazione per come andavano le cose prima del virus, orientandoci a esigere qualche cambiamento effettivo. Sulle prognosi pessimiste non val la pena soffermarsi: ci abitano.