Se non fosse nato nel rione Pigna di Roma, Paolo Portoghesi non sarebbe diventato Paolo Portoghesi, cioè uno dei più grandi architetti a livello mondiale del Novecento capace di guardare avanti con la grande memoria del passato. La “romanità” ha riempito lo spirito intellettuale e creativo di Portoghesi, scomparso ieri alla bella età di 92 anni nella pienezza delle sue facoltà creative – stava scrivendo un libro, “Bellezza” – sicché si può dire che egli avesse Borromini nel suo inconscio, quel Borromini che tanto amò e che punteggia di meraviglie appunto il rione Pigna, quello del Pantheon e piazza Navona per intenderci.
D’altronde tutto si tiene, tutto porta a Roma o meglio da Roma parte tutto (o quasi), ed ecco allora che Portoghesi “mettere mano” alla Capitale in tanti momenti e in vari modi – e non sempre tutti indiscutibili – fino all’opera che in un certo senso è il compimento di una funzione universale dell’architettura, la Grande Moschea di Roma, simbolo, nella città di San Pietro, di un “ponte” religioso, culturale e di pace. Non a caso un suo bel libro di memorie si intitola “Amor”, qui ovviamente palindromo di Roma, scrigno di arte e cultura e popolo, pasolinianamente. Già, la memoria: «Gettare un sasso nello stagno è sempre stato per me un gesto familiare e liberatorio. E i cerchi concentrici che si formano sulla superficie dell’acqua sono diventati forma simbolica nella mia architettura».
Accanto ai cerchi della memoria, ecco poi pacatezza, ricerca, dialogo, tratti che illuminano Portoghesi nella sua figura di umanista nel senso cinquecentesco del termine. Al sevizio delle città, delle comunità. A trecentosessanta gradi. Il suo impegno culturale lo condusse a inaugurare il settore architettura della Biennale di Venezia nel 1980 (che egli presiedette per molti anni) aprendo il fondamentale “progetto” della Strada Novissima ove si affiancavano facciate progettate da architetti che sarebbero diventati i protagonisti del postmoderno; un impegno culturale che a un certo punto non potè non incontrarsi con quello politico, così che nei primi anni Ottanta fu eletto nell’Assemblea nazionale del Psi di Bettino Craxi coltivando peraltro sempre un bel rapporto con i radicali. E infine la natura.
A Calcata, vicino Viterbo, dove visse negli ultimi anni ed è morto ieri, Portoghesi costruì quello che alcuni definirono «il parco più bello del mondo», un giardino incantevole che fiancheggia l’antico borgo di pietra: nel libro “Abitare poeticamente la terra. La casa, lo studio e il giardino di Calcata” (2022) racconta il “piccolo mondo” di questo borgo costruito sulla rupe tufacea, dove l’architetto arrivò nel 1974 per la prima volta e che lui ha rianimato con la sua dimora, un esempio di quella che venne definita “geoarchitettura”: «L’uomo deve smettere di costruire secondo una logica puramente economica – disse Portoghesi – che produce spreco di energia, inquinamento e sfruttare il patrimonio degli antichi borghi invece di abbandonarli alla distruzione». Se la modernità è sguardo sul futuro basata sul rispetto della memoria, allora Paolo Portoghesi davvero ne è un bell’esempio.