Siamo abituati a onorare con cippi esemplari e gravi costruzioni monumentali la memoria delle umanità di cui fa strage il cataclisma, la guerra, la persecuzione razzista. E ci dedichiamo giustamente a guarnire quei manufatti con i nomi delle vittime, gli elenchi lunghi e terribili che recuperano e fissano l’identità di quelle vite annientate.

Ma un altro massacro sfugge a quella contabilità commemorativa: ed è quello dei migranti uccisi dalla fame, dalla sete e dal mare che li affoga mentre provano a raggiungere una costa mediterranea più promettente rispetto a quella che si lasciano alle spalle. Se pure ci provassimo, se pure decidessimo di dedicare a quest’altro massacro un segno di ricordo riferito a esistenze che avevano un nome, non potremmo. Dei venticinquemila morti – venticinquemila ! – che in meno di un decennio si sono accumulati in faccia alla nostra distrazione, e che abbiamo attribuito alla responsabilità dell’inevitabile, dell’imponderabile, del caso fortuitamente sfortunato, noi perlopiù non conosciamo nemmeno il nome.

Sappiamo tutt’al più, e nemmeno sempre, da quale spiaggia africana o mediorientale hanno preso il mare, ma ignoriamo perfino quale fosse il loro Paese d’origine: e se pure lo sapessimo cambierebbe poco, perché molto spesso si tratta di posti in cui quegli esseri umani sono cose anonime da sgozzare, da torturare, da violentare, da schiavizzare, cose prive di un nome cui intestare un qualsiasi diritto. E come cose finiscono sulle nostre spiagge, contro i nostri scogli, o come stracci sparsi intorno a una tinozza rovesciata.

Sono morti senza nome perché erano vite senza nome, venticinquemila che non ritrovi in un registro scolastico, in un catalogo di vaccinati, in un indice elettorale: perché non ci sono scuole, né ospedali, né libertà democratiche nella maggior parte dei villaggi di fango e lamiera da cui provengono. Venticinquemila immemorabili.