«Per De Mita la politica era sturziana: stare tra la gente, far capire a tutti quello che si fa, far sapere che il palazzo è aperto e che la democrazia ha vinto…», ci dice Giuseppe Sangiorgi, una vita da giornalista al Popolo e otto anni come portavoce di De Mita, a Piazza del Gesù prima e a Palazzo Chigi poi. Ma non è per sentire l’ufficialità del portavoce che lo chiamiamo. Di De Mita, scomparso a 94 anni nella sua Nusco, vogliamo conoscere gli aspetti meno noti. Il tratto umano.
Rovesciamo la narrazione, Sangiorgi. Ci dica subito qualche vizio, non c’è uomo senza peccato.
Sarò sincero, non gliene conosco. Amava la famiglia, viveva per il lavoro. Di distrazioni, neanche l’ombra. Beveva un bicchiere di vino la sera, non di più. E non sempre. Ha sempre amato molto sua moglie e parlato dei quattro figli, tre femmine e un maschio, che però non hanno mai seguito troppo le orme del padre.
Giocava a carte. A tresette.
Quello sì, è vero. E giocava da stratega, pensando a ogni passaggio. Non perdeva mai.
È vero che c’era chi si faceva raccomandare per giocare una mano con lui?
Certo, eccome. Chiedevano a me e a Mastella: facci fare una partita con lui, lo racconteremo ai nostri figli. Esercitava un carisma incredibile, spontaneo.
Com’era composta la sinistra Dc, all’arrivo di De Mita?
Un quadrifoglio: in Sicilia, Piersanti Mattarella. In Campania, Ciriaco De Mita. Per la Toscana e il centro Italia, Lapo Pistelli. In Lombardia e per il Nord, Albertino Marcora. Che fu ministro dell’Industria ed ebbe il compito non sempre facile di introdurre De Mita nei salotti che contavano a Milano e a Torino.
Perché era un compito non tanto facile?
Perché De Mita odiava i salotti. Era il figlio di un sarto di paese e di questa sua matrice popolare andò sempre fiero. Introdurlo nell’alta borghesia era complicato, come dimostra quella volta che a Torino gli prepararono un’accoglienza reale, e lui all’ultimo non si presentò.
Ce la racconti bene, chi lo invitò?
Gianni Agnelli, che organizzò un ricevimento in grande stile con i suoi vertici apicali e con Carlo De Benedetti che per l’occasione chiese anche a Eugenio Scalfari di prendere l’aereo e volare a Torino. Grandi preparativi a palazzo, dove erano tutti ansiosi di riceverlo. Lui arrivò a Torino dove aveva altri impegni l’indomani, si fermò in albergo, telefonò di essere troppo stanco e non andò.
Come la presero?
Andarono su tutte le furie. Scalfari gli telefonò l’indomani dicendo che da quel giorno Repubblica lo avrebbe considerato poco affidabile. Agnelli dichiarò che De Mita, più che politico, era il più grande intellettuale della Magna Grecia. Com’è noto, Montanelli ebbe il guizzo di aggiungere: ‘Perché, Grecia?’”
E a Roma, invece, sapeva intessere relazioni migliori?
Sì, il mondo della politica gli apparteneva, era il suo mondo. Faceva anche cene private, con la moglie che era un’ottima cuoca. E andava a casa di alcuni amici fidati. Alcuni, non noti. E spesso non democristiani: per la Dc bastava lui. Era con gli altri che cercava il confronto. Ma guardi, se pensa a cene lussuose, si sbaglia. Era di una semplicità estrema. A casa sua, offriva pasta e ceci: la specialità della sua signora. Ospite in casa altrui, portava la treccia di bufala che faceva arrivare dall’avellinese. Quasi un biglietto da visita, un suo marchio Dop.
Ci racconta qualcuna di queste cene?
Dietro piazza del Popolo c’era la casa di Pippo Marra, patron dell’AdnKronos. E lì cenava con Angelo Sanza e Claudio Signorile. Sinistra Psi e sinistra Dc avevano un dialogo sottotraccia ma continuo, grazie a quegli incontri. Anche Marra restituiva la visita quando voleva avere qualche notizia, e De Mita lo riceveva nel suo appartamento modesto, tre camere in una cooperativa popolare su via Ardeatina.
E con i comunisti?
Anche con loro, ottimi rapporti. Era stato buon amico di Enrico Berlinguer, che considerava il leader più importante con cui dialogare. Aniello Coppola, grande firma de l’Unità, era il trait-d’union. A casa sua, in gran segreto, si incontravano prima De Mita e Berlinguer, poi De Mita e Alessandro Natta. A Coppola dicevano di non parlarne mai, ma io ero presente e adesso il segreto si può rivelare.
Un segreto più importante di altri, in quelle cene?
Va da sé che si parlasse molto di Aldo Moro, dei socialisti e del Vaticano. E una sera davanti a me vidi Natta presentarsi con una bottiglia di vino e un gran sorriso, inusuale. Era una calda serata di fine giugno del 1985. Natta disse a De Mita che se avesse avviato le trattative per un suo governo, a guida De Mita, il Pci gli avrebbe dato il suo appoggio aperto.
Appoggio esterno, una astensione?
No, il tenore era quello di un sostegno pieno, aperto e senza escludere la partecipazione al governo.
Poi però non se ne fece nulla.
De Mita rispose che il suo lavoro era allora di segretario del partito, ma che ci avrebbe ragionato. Credo ne abbia parlato con Francesco Cossiga appena eletto presidente della Repubblica. E le cose andarono come sappiamo: ci fu l’accordo con il Psi, per la staffetta con Craxi. Due anni a guida socialista, due anni a guida Dc. Penso che De Mita avesse in mente anche la possibilità di ricevere un sostegno del Pci in Parlamento sulle leggi di riforma cui puntava, per poi aprire, dopo le elezioni successive, al compimento del sogno di Moro e Berlinguer.
Leggi di riforma a cui pensava per aprire al Pci, come per esempio?
Quella sul riconoscimento delle coppie di fatto, anche omosessuali.
La staffetta era un accordo generico o c’era qualcosa di più?
C’era un documento scritto e firmato tra le parti. Quando Craxi, al termine del suo biennio, andò da Giovanni Minoli, a Mixer, per dichiarare che non esisteva alcun preciso accordo, mandò De Mita su tutte le furie. Si sentì tradito, forse di più. Disse in quell’occasione che si era sulla soglia di una crisi sistemica, di una incapacità dei partiti di riguadagnare la fiducia della gente. Di lì a pochi anni crollò tutto.
Ebbe inizio un duello epico, qual era il sentimento vero di De Mita?
Non odiò mai nessuno. Era un uomo di pace. Mal tollerava il carattere di Craxi: ne soffriva una certa arroganza, ma lo rispettava moltissimo. Ed ebbe verso la vicenda giudiziaria e umana del segretario Psi una grande partecipazione personale. Anche commossa.
Di Mani Pulite cosa diceva?
Capì prima di tutti quello che stava per accadere. C’era un combinato disposto di tanti fattori diversi, dagli equilibri internazionali alla società dell’informazione di massa che presupponevano un cambio epocale, e De Mita capì prima di altri che la Dc e il sistema dei vecchi partiti avrebbero faticato a tenere il passo.
Quali erano i suoi delfini, a chi voleva passare il testimone?
Le persone che stimava erano tante, tra cui sempre in testa l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Essendo stato Ciriaco tra i migliori amici di Piersanti, sin da giovanissimo. Poi Castagnetti, Lusetti, Franceschini.
Disse di sentirsi più giovane di Berlusconi e anche di Renzi.
Era animato da un vitalismo incredibile. Da un’energia contagiosa. Di De Mita rimanevano tutti incantati, quando c’era lui tutti i presenti diventavano demitiani. La sorella di Misasi per questo suo sconfinato carisma iniziò a guardarlo male…
Perché? Chi era la sorella di Misasi?
Riccardo Misasi era un esponente della sua corrente, senatore e più volte ministro. Abitavano vicino a casa di De Mita, nello stesso palazzo. La sorella del senatore, più giovane, organizzava cene e feste da ballo con le sue amiche. Quelle andavano per ballare, per divertirsi. Qualcuna cercava anche marito. All’epoca le occasioni erano quelle, le più giovani speravano di conoscere dei ragazzi. E quelli andavano. Ma poi arrivava De Mita, si sedeva in poltrona e iniziava a parlare, e tutti i ragazzi gli facevano cerchio intorno e finivano irrimediabilmente per ignorare le ragazze.
Dopotutto era il più grande intellettuale della Magna Grecia…
Guardi, poca ironia: leggeva sempre. Saggistica, perlopiù. Politica, storia, filosofia, economia. Divorava i libri, poi li raccontava. Avrà un numero di libri inestimabile, in casa. Anzi quando da Roma si trasferì a Nusco sa cosa fece? Ampliò la villetta che aveva ai margini del paese, fece costruire una serie di locali aggiuntivi tutti per i libri. Migliaia, diverse migliaia. E non ce n’era uno senza le sue note, le sue sottolineature.
Una passione che condivideva con Spadolini.
A proposito di Spadolini, sa cosa successe nel giorno della crisi di Sigonella? Lui era invitato a tenere una conferenza all’università di Palermo. Non volle disdire, andai con lui. Iniziò a parlare con l’aula magna gremita. Non esistevano i cellulari. Da Roma, tramite la Batteria ci rintracciarono e il rettore mi venne a chiamare, io ero sotto al podio di De Mita. Corsi al telefono, era Spadolini che in disaccordo con la linea di Craxi, aveva deciso di dimettersi e far cadere il governo.
E lei cosa fece?
Dissi a Spadolini di rimanere in linea e corsi da De Mita, salii sul podio e gli sussurrai all’orecchio quello che stava succedendo. Lui disse agli studenti di doversi assentare un minuto perché da Roma c’era una emergenza.
E poi?
In aula ci fu una tensione palpabile. Un brusio preoccupato, pensarono a un attentato. Seguii Ciriaco che andò al telefono, calmò Spadolini, gli disse che con Craxi avrebbe mediato lui e di non fare niente. Dopo cinque minuti tornò sul palco e riprese da dove aveva interrotto, rassicurando: “l’emergenza è risolta”.
Una vita a risolvere emergenze, a mediare.
E non è questo, d’altronde, la politica?