Non se lo ricorda quasi nessuno ma quando diventò segretario della Dc, nel 1982, Ciriaco De Mita, allora cinquntaquattrenne, non si presentò al grande pubblico vantando le raffinate doti intellettuali che pochi anni dopo Gianni Agnelli avrebbe insieme esaltato e irriso con quella celebre definizione: “un tipico intellettuale della Magna Grecia”. Non sfoderò i “ragionamendi” tortuosi ma brillanti che avrebbero fatto a lungo la gioia del cronista di turno, beatificato dal favore del grand’uomo, preso sottobraccio e trascinato su e giù per il Transatlantico ad ascoltare le sue elaborazioni barocche.

In quell’esordio pubblico Ciriaco De Mita da Nusco, capo riconosciuto di quel che sarebbe giustamente passato alla storia come “il clan degli avellinesi”, accentuò soprattutto “la grinta”, termine oggi desueto, allora popolarissimo. La grinta era la carta vincente di Bettino il Rampante, la dote ruvida che permetteva al socialista di fare il bello e il cattivo tempo alla faccia dei voti scarsi, almeno a confronto con le due portaerei della politica italiana, la Dc e il Pci. La regola d’ingaggio per il segretario che sostituiva il doroteo Piccoli dopo aver sconfitto il candidato sostenuto dai dorotei, Forlani, era semplice: doveva controbilanciare, contenere, ridimensionare il vorace Bettino, per gli amici e soprattutto per i nemici “Bokassa”.

Figlio di un sarto, laureato con onore in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, debutto al governo cinque anni più tardi, come sottosegretario agli Interni, De Mita era stato prima il protetto e poi il rivale di Fiorentino Sullo, storico leader della sinistra Dc, anche lui avellinese, di cui aveva sposato la segretaria Anna Maria Scarinzi. Scontro duro, senza esclusione di colpi: quando si trattava di colpire il sofisticato Ciriaco picchiava duro. Nel 1969 Sullo, allora ministro della Pubblica istruzione, provò a rinviare il congresso provinciale avellinese per evitare che l’astro nascente gli facesse le scarpe. Il segretario Flaminio Piccoli si mise in mezzo, obbligò il ministro a dimettersi dalla Pi e a celebrare le assise. La carica dei demitiani, destinati a figurare poi tutti in qualche vertice politico o statale, fece il resto, seppellì la carriera di quello che era forse il più brillante erede di Dossetti.

Negli anni 70 De Mita rimase in pista come puledro di razza ma senza emergere troppo: fu vicesegretario del partito con Forlani leader dal 1969 al ‘73 ma si dimise quando il Patto Fanfani-Moro di palazzo Giustiniani rimise al loro posto i giovani emergenti. Fu ministro dell’Industria, del Commercio con l’Estero e, nei governi di solidarietà nazionale, del Mezzogiorno: postazione strategica. Il terremoto in Irpinia del 1980 e la gestione dei fondi per la ricostruzione ne moltiplicarono potere e peso nella Balena bianca. Il suo momento arrivò quando la Dc, dopo aver liquidato il Pci, si trovò alle prese con il nuovo alleato-rivale, Craxi/Ghino di Tacco.

L’esordio della nuova segreteria fu sconsolante: una catastrofe elettorale nel 1983, cinque punti percentuali persi dalla Dc alla Camera, oltre sei punti al Senato. Ma De Mita, tra un ragionamento e l’altro, era uomo d’azione, capace di tradurre le labirintiche dissertazioni in decisioni drastiche: chiese a Craxi un colloquio segreto, che per una volta rimase davvero tale. I due si incontrarono in un convento sulla via Appia, come da miglior tradizione scudocrociata, e il democristiano andò giù piatto: “Devi guidare il governo: non c’è altro compromesso possibile”. Craxi accettò e rilanciò: “Così non reggerebbe: io farò il premier nella prima metà della legislatura, tu nella seconda”. Nacque così “la staffetta”, pubblicamente annunciata con tripudio di mortaretti e fuochi artificiali, croce e delizia della politica italiana nei ruggenti anni 80. Lo scontro, in quella strana coppia che segnò per intero gli anni 80, fu continuo: politico, culturale, antropologico. Il cozzo si evitò fino al momento di passare il testimone, poi, quando Craxi fece capire e alla fine dichiarò apertamente di non avere alcuna intenzione di sloggiare da palazzo Chigi, diventò inevitabile.

De Mita riuscì a far cadere il governo Craxi anche a costo di elezioni anticipate e nella nuova legislatura si installò per un anno a palazzo Chigi, primo segretario della Dc a occupare anche la poltrona di capo del governo dai tempi di Fanfani. Ma di nemici De Mita se ne era fatti parecchi anche in casa propria. I capicorrente non vedevano l’ora di liberarsi da un leader che da un lato aveva tentato di sgominare correnti e signori delle tessere, dall’altro aveva proceduto a un’occupazione capillare del potere affidata ai fedelissimi, agli “avellinesi”: Nicola Mancino, Gerardo Bianco e Giuseppe Gargani in Parlamento, Clemente Mastella da Ceppaloni fatto assumere con ordine tassativo dalla Rai e poi proconsole demitiano per l’Informazione, Biagione Agnes da Serino alla Rai.

De Mita contava anche sulle teste d’uovo “esterne” alla struttura del partito, dislocate nei gangli vitali del potere per regalare linfa vitale a una Dc gigantesca ma esangue. De Rita al Censis, Prodi all’Iri, l’economista Pellegrino Capaldo. Dalla ricostruzione dell’Irpinia, che gli costò la carica di presidente della Bicamerale quando il fratello fu inquisito salvo poi essere assolto con formula piena, a Tangentopoli, dal crack Parmalat all’acquisto a prezzi stracciati di un appartamento nel centro di Roma De Mita è stato coinvolto in diversi scandali ma l’unica certezza assoluta è che tra i suoi metodi il clientelismo ha sempre figurato in testa all’agenda, senza alcuna dissimulazione.

Furono i capicorrente a detronizzarlo nel 1989 togliendogli la segreteria del partito, carica che aveva mantenuto più a lungo di qualsiasi altro segretario della Dc: «Era così convinto di essere vittima di un complotto che si è suicidato politicamente per dimostrare di avere ragione», ironizzò Andreotti che in realtà, con Forlani e giocando di sponda con Craxi, era stato il vero artefice della caduta di De Mita. Pochi mesi, e l’ormai ex segretario fu estromesso anche da palazzo Chigi. Tra i grandi leader della prima Repubblica, il leader avellinese è tra i pochi rimasti in campo anche dopo il fatidico 1993: nel Ppi, nella Margherita, nel Pd, nell’UdC, nel movimento da lui fondato “L’Italia è popolare”. Ma soprattutto come sindaco, dal 2014 al momento della morte, di Nusco: una terra dalla quale, nonostante la vertiginosa ascesa e l’enorme potere esercitato negli anni 80, non si era mai davvero allontanato.

L’ “intellettuale della Magna Grecia” era, sapeva di essere e voleva restare tanto paesano quanto l’antico nemico Bettino era intimamente uomo della metropoli. La “grinta” non la aveva persa. Lo dimostrò nel confronto televisivo contro Renzi, nella campagna referendaria del 2016. La decisione di contrapporre al giovane e aggressivo premier un uomo della prima Repubblica con 88 primavere sulle spalle sembrò un suicidio. Non lo fu. De Mita, con i suoi “ragionamendi” non vinse ai punti. Mise KO l’avversario.