Basta barricate ideologiche: bisogna pungolare il governo, certo, senza però farsi trascinare da una furia pregiudiziale. È questo l’appello lanciato da Claudia Mancina all’opposizione: «Serve una robusta iniezione di riformismo per passare alla vera alternativa». Un invito rivolto in particolar modo al Partito democratico che, secondo l’ex deputata del Pds, dovrebbe puntare a migliorare le riforme proposte dal governo Meloni piuttosto che affossarle.

A partire dal premierato che, al di là delle opinioni positive o negative, pone un punto indiscutibile e importante sulla stabilità degli esecutivi in Italia; per questo «gridare al fascismo alle porte non è affatto sensato e certamente non aumenta la credibilità del Pd e del fronte progressista». Le priorità per invertire la rotta e ambire a guidare il paese? Non solo «capire le ragioni profonde del disincanto che ha prodotto il populismo», ma anche – e soprattutto – lasciare «da parte i radicalismi e i settarismi».

Da settimane si moltiplicano gli appelli: serve una nuova area liberaldemocratica e riformista. Ma, oltre gli slogan, al momento c’è solo una nube di fumo. È così difficile dare sostanza a questa necessità?
«Non credo che ci sia spazio per una nuova area. Il fallimento del cosiddetto terzo polo mi pare sia ormai definitivo. Penso invece che sia necessaria una robusta iniezione di riformismo alle forze di opposizione, e in primo luogo al Pd, per passare per l’appunto dalla pura opposizione alla vera alternativa. Oggi non basta più riferirsi a una base sociale esistente – un tempo la classe operaia, poi i ceti medi; tanto meno può bastare mettere insieme pezzi di società in modo meccanico. Una base sociale, che significa radicamento e quindi consenso, si costruisce attraverso un’offerta politica chiara e definita, con proposte che guardino alla crescita economica, sociale, culturale, in un paese che è fermo da decenni e ha i più bassi salari del mondo occidentale, la più bassa occupazione femminile, i peggiori risultati dei test Invalsi, il più alto tasso di abbandoni scolastici».

Anche perché il riformismo non è sempre progressista, ma può essere pure conservatore e populista…
«Certamente i conservatori possono essere riformisti, ne abbiamo avuto esempi in altri paesi. In Italia riformisti sono stati i democristiani, nella prima fase della Repubblica. Basta pensare a Vanoni o a Fanfani. Poi è toccato ai socialisti. I comunisti erano riformisti nelle Regioni rosse, ma sul piano nazionale era un’altra cosa, c’era una sorta di tabù politico. Così hanno tentato più volte il passo verso il riformismo, però dovevano essere riforme “di struttura”, e poi riformismo “forte”. Il passato pesa sempre… Che invece il riformismo possa essere populista, ho i miei dubbi. Certo non è una prova di riformismo il reddito di cittadinanza o il bonus edilizio».

Una cultura che ormai è stata sdoganata, ora tutti vogliono dirsi «riformisti». Ma il vero problema è: in quale direzione vanno le riforme?
«Infatti, questo è il problema. Le riforme sono tali se aiutano il paese ad andare avanti, ad uscire da quello che appare un destino di declino. Quindi si deve agire sulla crescita e sull’occupazione, ma anzitutto sulla demografia, cioè sia sulla natalità e la famiglia che sull’immigrazione. Questo è uno dei punti di maggiore differenza tra destra e sinistra, ma se ne vanifica il senso se si resta fermi a una visione astratta e pietistica dell’accoglienza. Abbiamo bisogno di integrazione, cioè di formazione di nuovi cittadini italiani. Ius soli o ius scholae, mi sembra una disputa ideologica. Quel che serve è anticipare il conseguimento della cittadinanza e anche immaginare percorsi scolastici integrativi per i bambini immigrati».

Quanto può essere credibile un fronte che grida all’imminente ritorno del fascismo con il premierato?
«Gridare al fascismo alle porte non è affatto sensato e certamente non aumenta la credibilità del Pd e del fronte progressista. La proposta sul premierato può piacere o non piacere (a me così com’è formulata non piace), ma è legittima, e non porta l’Italia fuori dal sistema parlamentare. In tutti i grandi paesi europei, con i quali dobbiamo confrontarci, i poteri del premier sono molto più forti di quelli del premier italiano. L’instabilità dei governi è un male storico del nostro paese, e non si può fingere di non vedere quanti danni questa instabilità abbia portato e porti. Draghi è un grande, e il suo governo è stato una buona cosa, ma un paese con istituzioni sane è un paese che non ha bisogno di un Draghi come soluzione disperata».

C’è anche un tema di perimetro. Renzi torna a guardare al centrosinistra, mentre i 5 Stelle puntano i piedi e Calenda si tira fuori. Insomma, tutti d’accordo sull’importanza di costruire l’alternativa al centrodestra ma veti e distinguo continuano a prevalere…
«La questione delle alleanze è croce e delizia della sinistra dai tempi dell’Ulivo, o forse bisognerebbe dire dai tempi di Berlinguer. Credo che si debba ripartire dalla capacità del Pd di costruire intorno a sé uno schieramento di alternativa, che non può non essere di centrosinistra. Partire da sé, definire meglio la propria identità progressista e riformista, e poi cercare le alleanze. Altrimenti si rischia di costruire solo uno schieramento contro, e non credo che questa cosa funzioni più».

Come si può superare questa fase di stallo del centrosinistra? Il modello Gran Bretagna può funzionare?
«La Gran Bretagna ha un sistema elettorale e un sistema dei partiti molto peculiare, difficile importarlo. Quello che si dovrebbe importare è la capacità di ridefinirsi, come dicevo, dandosi il tempo e l’elaborazione necessari. Starmer ha convinto lasciando da parte i radicalismi e i settarismi; credo che questo debba fare anche il Pd».

Il caso francese parla chiaro: il monopolio dell’ascolto non va lasciato alla destra. In Italia lo hanno capito tutti?
«Non so se lo hanno capito tutti, soprattutto non so se si sappia chi e che cosa ascoltare. Non si tratta di fare una somma di proteste, ma di capire le ragioni profonde del disincanto che ha prodotto il populismo, e cercare di cambiare le emozioni che guidano i volatili comportamenti elettorali del nostro paese. Il mondo cambia rapidamente e i cittadini spesso reagiscono con la rabbia e con la paura. Toccherebbe alla politica progressista e riformista guidare, anziché essere guidata».

Sulle colonne del nostro giornale lei cura la rubrica Resistenza Riformista. C’è tanto da battagliare nel Partito democratico a trazione Elly Schlein?
«Certo che sì. Credo però che la battaglia non sia contro la segretaria, ma per introdurre nel partito e nella sua azione le idee di una cultura autenticamente riformista. Che significa, per esempio, non muoversi sempre di rimessa sul governo, non concepire l’opposizione come una sorta di dovere di critica a prescindere. Questo vale in particolare sulle riforme istituzionali che questo governo sta proponendo, che dovrebbero essere affrontate con una critica non pregiudiziale, cercando magari di migliorarle. Purtroppo invocare un atteggiamento bipartisan sembra inutile… Ma i riformisti sono testardamente bipartisan».