Cofferati torna a casa e attacca i riformisti sul Jobs Act

SERGIO COFFERATI

Strano destino quello di una generazione di comunisti, oggi sulla settantina e oltre, in gioventù e nella maturità pienamente riformisti e in età più avanzata trasformatisi in massimalisti-estremisti. Come se il tempo che passa li sospingesse a ritrovare nuove motivazioni in quelle vecchie, peraltro mai sposate prima, una maturità o senilità politica vissuta indurendo le proprie convinzioni anche a costo di rinnegare inconsapevolmente il proprio passato quando essere riformisti era difficile. Essendo loro pienamente dentro una logica riformista di governo, non si può dire che sia un ritorno alla gioventù come spesso accade a chi così reagisce all’inesorabilità del tempo che passa, né si può invocare una presunta coerenza grazie al fatto che – per farla breve – la sinistra si è spostata a destra e loro sono rimasti fermi, il che è nulla più che una boutade: i tempi cambiano. Forse piuttosto preme sul loro animo una sorta di rivalsa contro la generazione che gli tolse il potere, di cui Walter Veltroni e Matteo Renzi, in modo diverso, sono gli emblemi, forse è il bisogno di dare un senso vecchio-nuovo al loro presente. E allora, eccoci qua, siamo tornati per riprenderci tutto quello che è nostro, firmato Sergio Cofferati, Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema.

Cofferati dunque torna nel Pd soddisfatto che non vi sia più il “renzismo”, questa bussola che lo deve aver guidato, au contraire, in tutti questi anni, eppure non v’è dubbio che egli sia stato un riformista doc in anni lontani ma non lontanissimi, pienamente ascrivibile alla scuola riformista della Cgil: Luciano Lama più che Bruno Trentin, che esprimeva una vocazione conflittuale e antagonistica rispetto al sistema capitalistico. Cofferati invece era un sindacalista pragmatico, di quelli che fanno gli accordi non disgiungendo gli interessi dei lavoratori da quelli del Paese (vedi intese con i governi Dini e Prodi), presto in luce come segretario dei chimici della Cgil, categoria sensibile al registro della innovazione e della modernità. Da leader nazionale del principale sindacato italiano è passato alla storia per il famoso Circo Massimo (23 marzo 2002), milioni di persone (tre, disse la Cgil ma erano di meno) contro il governo Berlusconi che voleva abolire l’articolo 18, intuendo quanto fosse necessario coprire uno spazio politico lasciato vuoto da un centrosinistra indebolito e diviso dopo la sconfitta del 2001 e che prima aveva sostanzialmente fallito la prova del governo a causa delle rivalità interne: su quel palco si vide un leader carismatico e tuttavia con un’immagine affidabile e non distruttiva.

Questa combinazione tra il sindacalista di lotta e il politico riformista piaceva anche all’esterno, per esempio al mondo dei Girotondi e personalmente a Nanni Moretti, che con lui diede vita ad una importante manifestazione a Firenze (10 gennaio 2013) ed era perfetta per tentare la scalata alla leadership dei Ds, tanto è vero che dalla sua parte si schierò non solo la sinistra interna ma anche veltroniani, prodiani e riformisti vari ma la battaglia era persa in partenza soprattutto per l’opposizione di Massimo D’Alema che mai lo ha sopportato («il dottor Cofferati», lo chiamò una volta tanto per marcare la distanza), e iniziò per lui un percorso diverso: lasciata la Cgil dopo due mandati, Cofferati s’inventò prima la candidatura a sindaco di Bologna, e vinse, fece lì la parte del “sindaco sceriffo”, non accettò un secondo mandato ma disse sì poi all’Europarlamento, candidato a Genova dove nel frattempo era andato a vivere per ragioni personali.

Tra l’altro a Genova nel 2015 riuscì ad affossare la candidatura alla presidenza della Regione Liguria di Raffaella Paita (che lo aveva clamorosamente battuto alla primarie del Pd) appoggiando il candidato della sinistra Luca Pastorino e regalando così la vittoria a Giovanni Toti. Anche per questa disfatta lasciò il Pd lamentando brogli, una brutta uscita di scena: ormai l’evoluzione – o involuzione – era compiuta e divenne una specie di “saggio” della sinistra vendoliana, dove più o meno è rimasto in tutti questi anni senza farsi molto notare. Il ritorno a casa nel Pd segna la chiusura di un cerchio esattamente identico a quello che ha disegnato la parabola di D’Alema – davvero sembrano le plutarchiane “vite parallele”  – che partendo anch’egli da posizioni addirittura clintoniane è via via approdato sui lidi più tradizionali della sinistra, con punte persino estremiste, uscendo dal Pd e riavvicinandosene oggi (pur senza aderirvi) che “il renzismo non c’è più”, che è poi la motivazione di fondo per la quale il gruppo di Bersani (un altro riformista oggi molto spostato a sinistra) si è sciolto ed è entrato nel partito di Elly Schlein.

Vite parallele e anche opposte, e non sembri un gioco dialettico. Al Congresso del Pds del 1997 D’Alema, allora premier, polemizzò duramente contro il segretario della Cgil definendolo «sordo» alle istanze para-blairiane di cui in quel momento D’Alema era invaghito: la verità è che sotto la disputa c’era non solo l’ovvia distanza che separa il leader sindacale dal presidente del Consiglio ma una vera lotta di potere per la guida della sinistra. Il riformista Cofferati aveva il “torto” di non essere esattamente della Ditta: mai Massimo D’Alema gliel’avrebbe ceduta. Tanti anni dopo, come in certo romanzi ottocenteschi, entrambi si ritrovano ai giardinetti di quella sinistra-sinistra che un tempo gli faceva venire l’orticaria. Una terza o quarta vita da impegnare ancora una volta nella politica, hai visto mai che possano riaccendersi le luci della ribalta.