L'analisi
Col Sindaco d’Italia la scelta dei cittadini al centro, tra una nuova forma di governo e regionalismo differenziato
Resta sentita la domanda di un rafforzamento del ruolo degli elettori, che siano in grado di determinare, senza ulteriori mediazioni, i vertici del Paese

La presente legislatura sta riproponendo il tema delle riforme costituzionali evocando spinte di innovazione solo apparentemente disgiunte, vale a dire l’intervento sull’autonomia differenziata e le modifiche da apportare alla forma di governo parlamentare in vista di una maggiore stabilità dell’esecutivo.
I nessi tra i due corni del medesimo disegno riformatore non sono sempre evidenziati dal dibattito politico in corso: al più essi sono messi in relazione per sottolineare le differenti esigenze politiche delle diverse componenti della coalizione governativa.
Ma, a ben vedere, regionalismo differenziato e forma di governo sono due elementi di un unico discorso, finalizzati come sono alla ricerca di quella stabilità che è necessaria – tra l’altro – ad implementare riforme non solo nell’ambito del governo nazionale ma anche in quelle delle regioni ed enti locali. Stabilizzare l’esecutivo permetterebbe così di progettare e realizzare riforme di struttura quali quella delle province o quella del federalismo fiscale e della finanza locale di cui il nostro sistema Paese ha estremamente bisogno e che le crisi dell’ultimo decennio hanno quasi interamente bloccato.
Si tratta, in altre parole, di dare forza e durata al potere esecutivo a livello centrale e, allo stesso tempo, attivare processi di rafforzamento dei governi regionali e locali, offrendo loro strumenti utili a rispondere ai bisogni – sempre crescenti – dei cittadini e dei corpi sociali. Non a caso, il percorso dell’autonomia differenziata ha attivato al suo interno anche processi finalizzati alla identificazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, un compito riservato al potere centrale ma con importanti influssi rispetto ai governi locali, per tacere dei risvolti sul piano finanziario.
La proposta
Questa trama di connessioni che coinvolge i diversi momenti riformatori di cui si va discutendo è adombrata anche dalla proposta di modifica della forma di governo di cui da ultimo al Ddl costituzionale nr. 2023 presentato giorni fa da Matteo Renzi. Suggestivamente, si accosta il modello di elezione del governo locale, ormai noto agli italiani, con quello da introdursi a livello nazionale, imperniati entrambi sulla elezione diretta del capo dell’esecutivo e si prospetta così, per il governo nazionale, la formula del cd. “sindaco d’Italia”.
Prescindendo dalle ovvie differenze tra i due casi, è interessante sottolineare, in primo luogo, la centralità della elezione diretta di uno dei vertici dell’amministrazione nazionale. Alle considerazioni espresse da tanta parte della dottrina, anche in questa sede, può essere utile aggiungere una nota sull’importanza da attribuirsi all’introduzione nel nostro sistema di profili di elezione diretta, muovendo dalla constatazione – da cittadini, ancor prima che da studiosi – della crescente disaffezione dei rappresentati rispetto alle istituzioni repubblicane, come la decrescente partecipazione al voto ampiamente dimostra.
Questione di maggioranza
Elezione diretta dunque al centro. Ma secondo quale caratura? Il Ddl in esame, riferendo la scelta in questione al Presidente del Consiglio, prende posizione contro l’ipotesi, ad essa alternativa, dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica. La scelta è condivisibile, principalmente perché consente al Paese di mantenere una figura con funzione di garanzia, la cui elezione sia l’esito di una maggioranza più ampia rispetto alla maggioranza politica, a cui dovrebbero essere affidati compiti non dissimili da quelli attualmente sanciti dalla Costituzione (ad eccezione di quelli relativi alla forma di governo, ovviamente) e, se del caso, aggiungerne altri, al fine di accrescerne tale funzione.
Diversamente, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri – che si trova già, se vogliamo, nelle pieghe dell’attuale sistema elettorale nazionale, oltre che in quello locale – ben può, quasi senza soluzione di continuità, essere fatta evolvere in una elezione diretta vera e propria, con ciò valorizzando il sentire comune dei cittadini elettori, già avvezzi a identificare nei leader dei partiti – il cui nome viene affiancato al simbolo del partito nella scheda elettorale – il potenziale capo dell’esecutivo.
Il sistema elettorale
È molto sentita infatti la domanda di un rafforzamento del proprio ruolo di elettori, che siano in grado di determinare, senza ulteriori mediazioni, i vertici del Paese e, in particolare, di chi ne determina scelte fondamentali, prefigurate durante la campagna elettorale. Analoga esigenza dovrà trovare soddisfazione, inevitabilmente, nel sistema elettorale, al fine di garantire una piena attuazione di quel principio di sovranità popolare che si intende valorizzare con la riforma e che passa, anche, dalla legge sui partiti politici. Oltre a questa modalità di elezione diretta, il Ddl in esame prevede l’elezione contestuale del Parlamento e dell’Esecutivo, una soluzione in grado di contemperare sia le istanze di radicamento sociale e organizzativo della politica sia le istanze di efficienza e di stabilità. Il progetto ribadisce altresì il principio del simul stabunt et simul cadent, senza la ulteriore previsione di una sfiducia costruttiva.
Quest’ultima regola che, nei sistemi parlamentari ad alta efficienza, serve a garantire stabilità agli esecutivi, nel nostro caso potrebbe essere considerata dagli elettori un modo per lasciare aperta la porta alle scelte del sistema partitico, così vanificando l’effetto di forte innovazione della riforma che si prospetta. Si tratta di una comprensibile preoccupazione che meriterebbe comunque un’ulteriore attenta riflessione per non privare il sistema della necessaria previsione di strumenti utili per fronteggiare situazioni e scenari emergenziali, per ora non regolamenti in Costituzione.
Il superamento del bicameralismo perfetto
L’assetto istituzionale riformato nel senso appena descritto dovrebbe contemplare, in via di principio, il superamento dell’attuale pari-ordinazione dei due rami del Parlamento nella concessione del rapporto di fiducia al Governo. Sarebbe pertanto coessenziale al rinnovato impianto delle dinamiche sottostanti la forma di governo anche un intervento di modifica del regime bicamerale perfetto, prevedendo una riforma della seconda camera in chiave regionale. Tale ulteriore passaggio, consentirebbe di chiudere il cerchio di una riforma complessiva, che si muove sui due piani illustrati in questa sede (forma di governo e regionalismo differenziato) volta a valorizzare il ruolo decisionale degli elettori e a garantire una maggiore stabilità ed efficienza del sistema.
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