Generazioni e generazioni di militanti sono passati attraverso il rito di iniziazione dell’attacchinaggio, colla e acqua da mischiare nei secchi, con mazze di scopa e rigorosamente alle quattro del mattino. È fondamentale per imparare l’arte sacra della politica, ci dicevano. Nel frattempo pensavamo a quanto fossero bravi a fare politica quelli che per lavoro attaccavano le pubblicità, ogni notte, non solo in campagna elettorale. Un duro lavoro, eppure essenziale, soprattutto per la tenuta della piccola e media impresa locale, che necessitava e necessita di pubblicità per gareggiare nel mercato, in un’Italia in cui i comodi centri commerciali hanno preso il posto delle vecchie piazze, e gli acquisti online consentono di arrivare ovunque tranne che nel negozietto sotto casa.

Un comparto, quello della pubblicità esterna, che nel paese offre circa 35mila posti di lavoro, tra attacchini, fabbri, falegnami, elettricisti, movimentando economie variegate che oggi – nell’era della transizione digitale – arrivano ai programmatori informatici, ai designer e ai videomaker. Sì, perché la transizione blu sta travolgendo anche questo comparto lavorativo – all’apparenza tanto novecentesco – nell’ottica della sostenibilità e dell’efficienza. Progressivamente si sta abbandonando la carta a vantaggio dei pannelli digitali, che coinvolgono non solo con la vista statica ma con video in movimento, suoni e il coinvolgimento di altri sensi, moltiplicando l’efficacia dei contenuti. Di questa tecnologia abbiamo seguito l’evoluzione dapprima nelle stazioni e negli aeroporti, oggi anche nelle strade di città, con qualche anno di ritardo rispetto a Times Square.

Investimenti su ricerche innovative hanno consentito di ammortizzare gli sprechi di carta, ma anche quelli del consumo energetico, per rendere sempre più performanti e sostenibili le comunicazioni destinate a cittadini e consumatori. Perché anche se non ci facciamo caso “finché non ci facciamo caso” la pubblicità di strada è la nostra prima fonte di informazione, spesso usata anche dalle pubbliche amministrazioni per rendere capillari i suoi messaggi. Le aziende che se ne occupano in Italia sono principalmente di piccole e medie dimensioni, e da veicolo di sviluppo economico contribuiscono a rendere le nostre città più decorose e decorate, vivibili e illuminate. Lo fanno anche attraverso l’erogazione di servizi accessori, come la mobilità in sharing, i punti di ricarica cellulare, le postazioni wi-fi, gli spot di misurazione della qualità dell’aria. Insomma parliamo di un asset privato, ma di pubblica utilità, che ci sta aiutando a rendere le nostre città più smart. Il beneficio poi arriva anche dai contributi versati a vario titolo alle casse dello Stato, in ogni sua declinazione. Infatti del totale investito in comunicazione Out of Home (OOH) circa il 50% viene trasferito alle casse di Comuni, aeroporti, stazioni e altre infrastrutture pubbliche.

Eppure come sempre, mentre il mercato corre veloce e in giro per il mondo le installazioni 3D diventano punti di attrazione turistica, o vere e proprie opere d’arte, l’elefantiaco e frammentato apparato normativo del Bel Paese stenta a stare al passo. Basti pensare che secondo la legge vigente tutti gli impianti digitali dovrebbero avere una luminosità pari a 150 candele per metro quadrato, mentre una normale tv di casa ne ha circa 700. Naturalmente è comprensibile che un Codice della strada anziano di decenni non sia riuscito a prevedere l’evoluzione tecnologica. Però pare che il momento giusto sia arrivato, e che l’occasione di riforma possa riguardare anche gli aspetti collegati a questo settore. Sarebbe importante per un mercato che, anche con l’utilizzo sempre più quotidiano dell’Intelligenza Artificiale, potrebbe sostenere il settore pubblico nella raccolta e nell’analisi di dati, fondamentali per progettare e realizzare le città del futuro. Siamo convinti che i decisori, che sicuramente hanno vissuto la gavetta dell’attacchinaggio di cui sopra, avranno la sensibilità adeguata per governare queste innovazioni.