La grottesca vicenda, tra il ridicolo e il tragico, tra Aristofane ed Eschilo, del ministro Gennaro Sangiuliano ci fa riflettere sull’inadeguatezza odierna della cosiddetta classe dirigente, che in pochissimi anni è passata dall’incompetenza alla deficienza, in senso latino. Nella scelta almeno dei ministri che giurano davanti al canuto e sempiterno Mattarella, quello della formula “con disciplina e onore”, sarebbe stato meglio abundare quam deficere, ma questo passava il convento meloniano. Il silenzio della massima autorità dello Stato, proprio sui dettami costituzionali di disciplina, qua assente, e onore, certamente latitante, è stato assordante. Ma avrà temuto che un solo suo sospiro potesse far precipitare una crisi di governo, che in questo caso è stata appesa ai voleri della dottoressa, come la chiamavano il ministro e il suo entourage, Boccia.

Il comandare e il proverbio siciliano

Il “comandare” è un’arte non da poco, antica e difficilissima, come sapevano bene i ruminanti ministri democristiani. E ruminavano perché l’erba del potere è dura, e poco digeribile, rispetto al cibarsi di carnalità. Comandare richiede massima concentrazione e nessuna distrazione. Ve li ricordate Piccoli, Taviani, Scelba, Rumor, per non parlare del Gigante, il divo Giulio Andreotti? Certo, si mormorava di una innocente cena tra Moro e Rosanna Fratello, ma nulla di più.

L’esempio… Messina Denaro

Il proverbio siciliano recita che cumannari è megghiu ca futtiri”. La Sicilia è il laboratorio da sempre del potere, soltanto per il fatto che svariati popoli e re si sono qui esercitati nell’arte del comandare, uno per tutti lo Stupor Mundi, l’imperatore Federico II. In tempi più recenti l’esercizio del comando, su uomini e cose, in Sicilia è passato a uomini feroci e molto esigenti sul solipsismo del comando, i boss di Cosa Nostra. Per costoro era vietato avere distrazioni muliebriche: un boss con l’amante veniva ritenuto debole e quindi attaccabile e sacrificabile, motivo per cui la primula rossa di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, per quanto ricco e forte, non assurse mai al ruolo di Capo dei Capi. Troppo fimminaro”.

Il proverbio siciliano parla del fottere in senso plurale: “futtiri” è legato anche al mangiare, “ta futti a spisa”, o a fregare il prossimo, “mi futtìu”, il comandare esclude potersi interessare di queste miserabili cose, perché l’esercizio del potere è già pienamente soddisfacente, per chi sa cosa farci, ti dà un’adrenalina che nemmeno la cocaina è in grado di sostituire. È il cogito ergo sum di cartesiana memoria, che da potenza, radice del potere, si fa atto, politico e amministrativo.

Boccia e il ‘boccino’ del comando

Il potere, anche se legato a un ambito specifico, è erga omnes, e tutti si devono adeguare. Per cui soddisfarsi di una banale dinamica erotico-sentimentale è profondamente riduttivo. È giustificabile solo con l’inadeguatezza. Siccome, non essendo all’altezza, non sono capace di esercitarlo, il potere, rifuggo da esso, e mi limito ai fringe benefit, l’auto blu, la comunicazione parossistica, e il profumo del successo, che può attrarre parvenu e arriviste. Andreotti, che conosceva bene la Sicilia, parafrasando il proverbio siciliano aveva inventato una massima: il potere logora chi non ce l’ha. Questi ragazzi del Fronte della Gioventù, ricevendo il potere, a differenza di Andreotti che già 20enne era sottosegretario a Palazzo Chigi, in tarda età ci sono arrivati logorati e – forse – un pochino frustrati. Per cui davanti a una Boccia hanno perso il più importante “boccino” del comando, cosa che in Sicilia conoscono tutti. Guarda caso in terra sicula la Meloni non sfonda, rispetto al resto d’Italia. Forse un corso di formazione dei Fratelli a queste latitudini sarebbe utile.