Luoghi comuni.
Vi sono luoghi comuni che si consolidano e producono nel tempo rarefazione di pensiero e povertà di pratica. Tolgono sfumature, riducono la capacità di muoversi dentro la contraddizione, e si afferma invece la tentazione di fare come se essa non esistesse. Viviamo in un mondo immerso nella contraddizione: l’unica cosa “pura” con cui abbiamo a che fare è la nostra fragilità di esseri umani, impiantata dentro il nostro dna sul quale c’è scritto dall’inizio che siamo condannati a morire, prima o poi.

Questi luoghi comuni del pensiero debole, che è tale perché si presenta con le mani alzate di fronte all’aggressiva violenza del pensiero del comando, sono all’opposto di quel “lugar comun” che rappresenta invece lo spazio pubblico e politico della condivisione di idee e pratiche di ribellione, di rifiuto, di strategie di uscita da un mondo ovvio. Dei luoghi comuni si condivide solo la dipendenza, ma ognuno è solo davanti a loro. Sono la negazione del pensiero collettivo, e l’affermazione di quel concetto di “opinione pubblica funzionale” descritta in maniera esemplare da un mio maestro, il compagno Benedetto Vecchi.

Tra Lenin e Gesù Cristo
Non ho scritto per un po’ sulla guerra, perché voler vivere dentro le contraddizioni significa anche mettersi in ascolto. Non partecipare al ping pong delle posizioni, uscire dalla maniera manichea di vedere ogni cosa. Vedere ciò che accade strada facendo e che può cambiare le cose da come si erano messe. Un aspetto del dibattito contro la guerra che non mi ha mai convinto, è ad esempio il luogo comune secondo il quale “tutto era già pianificato, tutto è deciso altrove”. Io penso invece che gli uomini e le donne, con le loro scelte, con il loro essere in campo, abbiano sempre fatto e facciano la differenza. Ci chiamavano allora “soggettivisti”, e ci contrapponevano l’oggettività “scientifica” della condizione di classe e della rivoluzione. Non ci ho mai creduto. Sono legato al “qui ed ora”, al “cogli l’attimo”, all’enorme ruolo dell’imprevisto e dell’umano nella Storia. Ho sempre combattuto sulla base di emozioni più che mozioni. Un misto tra Lenin e Gesù Cristo, forse sì, adesso a 55 anni suonati posso anche dirlo, al massimo vengo trattato da rincoglionito.

Resistenza. Resistenze
Il mio approccio nel contrastare la guerra combattendola, fuori dall’idea di resa di chi è aggredito e bombardato in casa, è iniziato con il tentativo di rompere il luogo comune della “resistenza”. Ho tentato di affermare che fare della fornitura di armi all’esercito ucraino l’unico discorso pubblico, rischiava di trasformare le mille forme della resistenza di un popolo, milioni di persone, in una unica e più debole guerra tra eserciti e stati. Di consegnare la risposta al nazionalismo aggressivo di un despota, ad un altro nazionalismo che si consolida sul campo di battaglia, sul sangue versato.

Ma solo il popolo ucraino ha diritto di dire come deve farsi la sua resistenza. Solo chi è li, sul campo di battaglia, decide cosa e come. Decide chi fa, chi rischia la vita, questo mi hanno insegnato. Quella frase di papa Francesco, “non so se è giusto” inviare armi, mi ha aiutato, ancora una volta. È una contraddizione, nella quale sono immerso. Non so se è giusto. So che con le armi come unica soluzione non si va da nessuna parte buona. So che senza difendersi dall’invasione di un esercito, a quest’ora l’Ucraina sarebbe solo un’altra colonia dell’ennesima guerra imperialista.

Quale Pace?
In questa contraddizione emerge con forza l’idea di cosa potrebbe essere la pace. È la resa di chi resiste? O la sconfitta di chi credeva di imporsi con la forza brutale sul volere di un popolo? Perché quando parliamo di “pace” un altro luogo comune fa capolino. Quale pace? Abbiamo un mondo in guerra, solo che ci ha sempre fatto comodo derubricarla a “guerra altrui”. Come può definirsi pace tutto quello che ci circonda? Le diseguaglianze, le violenze, i massacri che riguardano nostri fratelli e sorelle in tutto il globo, che subiscono ogni forma di guerra possibile, è il prezzo da pagare per stare in pace noi? E dunque sarebbe questa l’alternativa alla guerra? La guerra sofferta solo dagli altri? Non siamo in pace, non lo siamo mai stati, perché quel bambino kurdo, yeminita, palestinese, rwandese, amazzonico, è nostro figlio.

Mi rendo conto che qui Gesù Cristo prende il sopravvento su Lenin. Ma ne sono contento, sto bene cosi, inquieto e con la voglia di combattere, di resistere, per quel mio figlio, per quella sorella e fratello che non ho ancora conosciuto. Il movimento per la pace non può che essere un movimento che combatte. Che non propone a nessuno di arrendersi al più forte. La pace si conquista, non te la regala nessuno. La pace è un processo, una rivoluzione permanente, non uno status. È piena di contraddizioni, perché ha a che fare con il nostro modo di stare al mondo. Per anni hanno tentato di convincerci, con le buone e con le cattive come a Genova, che il “mercato” potesse essere la soluzione.

Fare business, imbrigliare il mondo con i soldi, gli affari, la finanza, avrebbe garantito maggiore pace, maggiore stabilità. Il neoliberismo e il suo mettere al centro il mercato, avrebbe consentito il governo del mondo. Proprio con i dittatori, i despoti di ogni risma bisognava fare affari: doveva essere il modo per imporgli il rispetto dei diritti umani, e il gioco degli “interessi comuni” come deterrente ad avventure imperiali. È sempre stato falso, e lo abbiamo sempre combattuto tutto ciò. Questo è il modello di pace che si è affermato. Dalla Libia agli Emirati Arabi. Dalla Russia alla Cina. Questo mondo qui, in pace solo per noi, è andato in crisi con l’Ucraina.

Disertare e sabotare
Altro luogo comune che ci riguarda: disertare la guerra. Vi è una idea debole di diserzione. Da una parte, quella del potere e dello Stato, la diserzione è solo atto di codardia. Dall’altra è solo fuga. Ma la diserzione può essere anche combattere in un’altra maniera. Prendere parte, ma fuori dagli schemi. Chi ha detto che chi diserta non sappia riconoscere da che parte stare? Chi ha detto che gli atti di sabotaggio contro i simboli e gli interessi in tutto il mondo di chi bombarda le città, organizzare la rete di protezione dei profughi, creare controinformazione, supportare in ogni modo le vittime della guerra, non siano forme di resistenza? Che non accettano di essere arruolate, ma che combattono eccome. Secondo me questo luogo comune sulla diserzione solo come “togliersi di mezzo”, è funzionale all’idea dominante, e cioè che la guerra non permette né critica né sfumature. Non permette pensiero. Resistenza, pace, diserzione: tre esempi di luoghi comuni che potrebbero invece diventare “lugar comun” di chi non si rassegna allo stato di cose presenti.

Europa
Questa tragedia che ha colpito decine di milioni di persone, di donne uomini e bambini, porta con sé anche i destini dell’Europa, come istituzione politica. Anche la nostra capacità di analizzare da un punto di vista “autonomo” ciò che si muove lì in alto, ha bisogno di essere rinfrescato. Ho visto che Macron, con il suo intervento, per qualcuno è passato da essere “servo della Nato” a “l’unica speranza”. Che affermare che Draghi a Bruxelles non ha fatto un intervento guerrafondaio, non significa essere il suo portaborse. Credo che l’autonomia dell’Europa da Washington e da Londra, sia una cosa per cui tutti quelli che sono contro la guerra dovrebbero battersi. Sapendo che ci muoviamo nella contraddizione, ancora una volta. Quelli, i Draghi e i Macron, sono capi di Stato, rappresentano governi delle nostre democrazie liberali che sono in stadio di malattia terminale non da oggi.

I nostri parlamenti sono la fotografia della crisi, non della solidità dei sistemi nati dalle costituzioni repubblicane. E dunque, ad esempio, dire che questa Europa deve rendersi indipendente dalla Nato, non può che significare sistema di difesa europeo. Mentre mi batto contro il militarismo e il riarmo, e contro la Nato, so che questa contraddizione la dovrò assumere. E sul negoziato, quando il Presidente della Repubblica Mattarella dice “modello Helsinky”, sono perfettamente d’accordo, e questo non vuol dire non sapere cosa lui rappresenti. Il Papa, che non è un attivista di movimento ma il capo di una istituzione religiosa che ha 2000 anni, quando dice “devo andare a Mosca, non a Kiev”, mi aiuta di nuovo: è li, al Cremlino, che bisogna bussare, o sfondare la porta, per far finire i massacri. E la Nato, per farla smettere di “abbaiare” bisogna sostituirla con qualcos’altro, che non abbia la rabbia come patologia.

La mia bussola.
Nel mentre di tutto questo, tra contraddizioni, dubbi e angoscia per chi vive e muore sotto le bombe, personalmente uso una bussola speciale: il fare. Mentre penso, mentre rifletto, mentre mi interrogo. In mare come in terra a fianco delle vere vittime di questa nostra pace e di questa nostra guerra. Rompere i confini aiuta.