Nel contesto della globalizzazione emerge una forte tendenza a un’omologazione  delle realtà socio-economiche e delle culture locali. Per non soccombere bisogna riscoprire la propria identità, valorizzando le competenze e le specificità territoriali. Occorre rivalutare le economie locali, attraverso una politica finalizzata a consolidare l’autosufficienza e la resilienza delle realtà locali intese come un portentoso caposaldo da cui ripartire.

Le identità locali non rappresentano un impedimento all’affermazione dell’economia globale o a una sua forma di aggiustamento spontaneo, bensì un chiaro modello di sviluppo aperto all’interscambio. Attraverso l’individuazione di una “vocazione” del territorio si costituisce la base per la specializzazione produttiva dello stesso. Le differenti specificità dei luoghi trovano il proprio fondamento in un forte senso identitario delle comunità locali. Per esempio, l’origine territoriale di un’azienda, il legame storico e culturale dei suoi frutti con il territorio di provenienza costituiscono l’asset fondamentale per competere con successo sui mercati internazionali. Possiamo ambire a uno sviluppo locale e sostenibile, aperto alla competizione internazionale, ma fondato sulla valorizzazione di una comunità naturale.

Questo discorso vale soprattutto per le aree interne del nostro Paese, distanti dai centri di offerta dei servizi, con problemi demografici, ma tuttavia dotate di enormi risorse ambientali e culturali e tanto più appetibili nella fase post-Covid. È questo il momento di “connettere” città e aree interne. La perifericità di queste ultime discende dalla loro minore accessibilità ai servizi di base che qualificano la nozione stessa di cittadinanza; quindi, affinché tale perifericità non si tramuti in marginalità, è necessario sia procedere celermente a una riorganizzazione territoriale e a un potenziamento di questi servizi, sia accrescere l’accessibilità da e per  le aree interne attraverso un miglioramento della mobilità, riducendo i tempi di spostamento, potenziando e riqualificando i servizi di trasporto e le infrastrutture.
Un’occasione unica  per connettere il Mezzogiorno al resto del Paese è rappresentata dalla linea ferroviaria ad alta velocità Napoli–Bari, l’elemento di punta del potenziamento delle infrastrutture italiane inserita nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Proprio ieri, in audizione alla Camera, il ministro Enrico Giovannini ha rimarcato l’importanza di fare presto, di rispettare i tempi imposti dall’Europa e quindi si è impegnato a semplificare norme e procedure per rispettare i tempi di consegna delle opere. La linea che collegherà i due capoluoghi di Puglia e Campania  si snoderà su un doppio binario per 121 chilometri e sarà caratterizzata da 14 stazioni, avendo l’obiettivo non solo di velocizzare i tempi di percorrenza ma anche di aumentare l’accessibilità e la competitività delle aree interne, permettendo di distribuire i flussi turistici anche verso realtà più piccole ma ad alta attrattività culturale e paesaggistica.

Questa  ferrovia potrà contribuire all’ auspicato rilancio sociale ed economico del Sud Italia e dell’intero Paese, il tutto in un’ottica di sostenibilità ambientale: il treno, infatti, è uno dei mezzi più ecologici per spostarsi. Tornano alla mente le parole di Francesco De Sanctis all’epoca della costruzione della ferrovia Avellino-Rocchetta Sant’Antonio: «Tutto si trasforma e qui la trasformazione è lenta. Si animi Monticchio, venga la ferrovia, e in piccol numero d’anni si farà il lavoro di secoli». Quella lezione è ancora attuale.