Lo intitolammo Barriere di vetro il libro che la Camera Penale di Roma pubblicò nel 2002 sul 41 bis. Nella quarta di copertina scrivemmo «questo libro non è imparziale: la tesi che propugna è che tutto questo non dovrebbe avere cittadinanza in una società democratica». Il “tutto” che veniva raccontato nel libro erano le storie che avevamo raccolto nei mesi precedenti direttamente dai detenuti allora sottoposti al regime speciale: le condizioni di vita, la segregazione totale, le limitazioni alla socialità, la difficoltà nelle cure mediche, l’impedimento ad ogni sia pur minima manifestazione della personalità, l’impossibilità degli incontri con i familiari.

Barriere di vetro erano, e sono, le massicce lastre di vetro antisfondamento che impediscono, negli incontri con i familiari, ogni sia pur minimo contatto fisico; una misura di sicurezza volta ad impedire la trasmissione di messaggi, è la giustificazione ufficiale, un simbolo dell’isolamento totale che si impone affinché non passi, a quegli uomini detenuti, neppure un briciolo di umanità. All’epoca dietro a quel vetro stavano anche i figli piccolissimi, poi la pelosa carità legislativa ha permesso, nel periodo successivo, che fino ai dodici anni possano toccare i genitori; compiuti i dodici anni fine della concessione, nessun contatto fisico.

Quando leggemmo quei racconti ci trovammo di fronte alla natura vera, e cruda, del 41 bis, quella di un trattamento disumano, volto a piegare il detenuto al fine di farne un collaboratore; cosa che lo Stato italiano confessò impudicamente quando la questione finì di fronte alla Cedu. Quello che colpiva, nei racconti di gente che pure era ritenuta responsabile di fatti gravissimi, erano i particolari, le vessazioni inutili, i divieti assurdi ed arbitrari, che meglio di qualsiasi altra cosa dimostravano che la sicurezza, totem avvolgente che avrebbe dovuto esserne la giustificazione, in larga misura non era in discussione. C’era quello che ti diceva che nel carcere dove si trovava, al nord, in nome della sicurezza, erano vietati i cappelli di lana, oppure quello che ti raccontava l’assurda selezione dei cibi ammessi e di quelli vietati. «Perché non mi posso cucinare pasta e ceci?» ci chiedeva uno.

Roba che non si è modificata, da allora, se anche negli ultimi tempi, uno dei temi affrontati – da quel vero e proprio Tribunale speciale che ha sede a Roma con competenza nazionale sul 41 bis – è stata il divieto di acquisto di un certo tipo di cibo perché dimostrerebbe, di fronte non si sa bene a chi visto che campano in reparti isolati, un supposto ruolo “dominante” all’interno del carcere. La logica del 41 bis è feroce, simbolica e allo stesso tempo infantile: se mangi bene rivendichi il tuo ruolo di boss, persino se leggi libri e giornali la cosa diventa sospetta. Del resto ogni forma disumana di detenzione è fondata su di una idea infantilmente rozza della pena.

È inutile a fare distinzioni: il 41 bis serve a far star male il detenuto, ad umiliarlo, è una forma di vessazione legalizzata, chi dice il contrario sa bene di mentire. Tra cento anni starà sui libri di storia come un arnese di cui anche la magistratura si vergognerà; oppure come l’antesignano della galera del futuro per i cattivi, e i suoi apologeti celebrati come salvatori dell’umanità. Dipende da quanto sarà incattivita la società del futuro. Per ora registriamo che i grandi criminali, anche se ridotti a larva umana come Provenzano, anche se incapaci di riconoscere i propri familiari dietro a quella sbarra di vetro, come Cutolo, devono crepare al 41 bis. In caso contrario qualche jena manettara, che campa in televisione e in parlamento di populismo giudiziario, inizierebbe la solita danza macabra al cui rituale i sinceri democratici non si possono sottrarre perché hanno paura di quella pubblica opinione, ancor più feroce, che loro stessi hanno creato.

La sicurezza c’entra poco, si può tutelare in altra maniera, il 41 bis è un totem simbolico, la bandiera del volto duro che lo Stato non può ammainare senza perdere la faccia. Il 41 bis è una contraddizione dello Stato di diritto ma una società democratica dovrebbe saper fare i conti con le sue contraddizioni. Tempo fa sono stato all’Asinara, carcere oramai chiuso che si mostra ai turisti come un sito archeologico. Arrivati in uno dei padiglioni la guida ci ha spiegato che lì vigeva la regola del silenzio: ai detenuti non era permesso parlare. Ognuno poteva immaginare cosa comportasse la violazione della regola. Poi ci ha illustrato le meraviglie di un altro padiglione, chiamato all’epoca la discoteca, che doveva il suo nome al fatto che era illuminato giorno e notte da enormi fari così da impedire ai detenuti di distinguere l’uno dall’altra.

Lo raccontava col sorriso sulle labbra, senza alcun imbarazzo: eppure quelle erano torture, secondo la definizione delle convenzioni internazionali già nel ‘900. In nome della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, persino al contrasto del fenomeno dei sequestri di persona, la società italiana, il mondo giuridico, la magistratura, permisero quelle pratiche per decenni. In pochi si opposero, i soliti radicali e qualche altra anima bella. La grande stampa no. Nessuno fece pubblicamente i conti con quella stagione neppure dopo, anche quando i casi di Triaca, o quelli che avevano riguardato la vicenda Dozier, avevano dimostrato che in Italia lo Stato torturava nel senso vero e proprio del termine. Nessuno, anche quando il rischio era passato, come invece succede nelle altre grandi democrazie.

Oggi si fa lo stesso col 41 bis e la lettura dei grandi giornali di informazione, l’ascolto dei tg lo conferma. È morto il Boss, ci dicono, magari qualcuno ci racconta come era ridotto, niente di più. Nessuno che dica, per come è morto, che non c’era senso a tenerlo al 41 bis se non quello simbolico della deterrenza. Tra qualche anno i nostri figli andranno a visitare vecchi carceri e reparti 41 bis, vedranno le telecamere e i microfoni accesi ventiquattrore al giorno, i cortili angusti con le grate ad oscurare il cielo, oppure scenderanno qualche piano sottoterra senza aria né luce. E ci sarà una guida che col sorriso sulle labbra racconterà che lì è morto un grande boss ridotto talmente male da non riconoscere la propria figlia; quello che non dirà è che, assieme a lui, a quei tempi, in Italia era morta la pietà.

Tra le lettere di quel libro semiclandestino che pubblicammo venti anni fa, ce ne era una che mi colpì. Narrava che in carcere girava la notizia che un magistrato di sorveglianza aveva permesso al cane di un detenuto per reati comuni di far visita al padrone per avere una carezza, perché il cane stava morendo di dolore per il distacco. «Vorrei che mio figlio fosse trattato come quel cane» si concluse quella lettera. Penso che lo stesso pensiero sia venuto anche alla figlia di Cutolo.