E' vero boom?
Come l’Italia ha drogato l’economia dagli anni ’70, così la crescita rimane un miraggio
Un nuovo miracolo economico? Se torturati i numeri possono confessare tutto quello che si vuol far dire loro, secondo Durrell Huff. Ma ci sono dei limiti. E se si lascia da parte la demagogia, le cifre non sembrano ancora dare molta speranza sulle prospettive economiche di lungo termine dell’Italia.
In primo luogo si dovrebbe abbandonare la cattiva abitudine di intestare i successi e gli insuccessi dell’economia rispettivamente al governo di turno e a quelli precedenti. Nel breve periodo, le performance economiche dipendono per lo più da fattori che non sono sotto il controllo del governo in carica, da variabili esogene e dalle politiche sedimentate negli anni nel bene e nel male.
Più utile sarebbe invece fare una stima attenta e indipendente sull’efficacia delle nuove politiche introdotte – quelle sì sotto diretta responsabilità dell’esecutivo -, cosa che in Italia si fa ben poco e a volte anche male. Se cumulate nel tempo, azioni di politica economica efficaci possono fare la differenza per le prospettive di un paese. Ci sono svariati esempi nella storia e nell’analisi comparata tra paesi.
Tolta di mezzo la sterile polemica politica, resta invece da chiedersi se, con i dati un po’ più rassicuranti degli ultimi tempi, sia appropriato parlare di una ripresa strutturale dell’economia che vada al di là dello stimolo di breve periodo alla domanda. Dopotutto, questo era il vero obiettivo di Next Generation EU e dei vari pacchetti anti crisi, cioè quello di facilitare un processo di riforma strutturale attraverso gli investimenti e il supporto temporaneo alla domanda. È un obiettivo economico ma è anche politico. Infatti, i vari tentativi di riformare l’economia italiana si sono sempre scontrati con la necessità di rendere le riforme socialmente compatibili, e di compensare in qualche modo i costi politici e sociali di breve periodo. Dunque, il temporaneo supporto alla domanda è un modo per facilitare il superamento di questi ostacoli.
Pertanto, i fondi europei e quelli nazionali per la digitalizzazione e la transizione climatica dovrebbero non solo esser spesi bene, ma anche con l’obiettivo di aiutare nel compito più arduo, cioè quello di aprire una stagione di riforme per innalzare strutturalmente la crescita economica del Paese. Si può dire che ciò stia effettivamente avvenendo?
Nonostante alcune indubbie mosse positive legate al Pnrr, l’impressione è che gli attuali sforzi siano mirati a spuntare le caselle concordate con l’Unione europea per ottenere nuovi fondi, ma senza che il processo di riforma sia convintamente fatto proprio dall’attuale governo.
I 45,6 miliardi di risorse del Pnrr spese a fine 2023 – 2,2% del Pil – non sono abbastanza per cambiare le prospettive. Ma ne restano tre volte tanti da spendere entro il 2026. Non sono pochi. Va ricordato che tutti questi fondi arrivano dall’Unione europea, ma il debito che si va formando è anche in parte italiano e dovrà esser ripagato in futuro. Gli effetti degli stimoli alla domanda sulla crescita del Pil, siano essi fondi europei per la digitalizzazione o incentivi per il Superbonus, tendono ad esaurirsi se non portano ad un aumento della capacità produttiva. Mentre il debito resta. E gli interessi sul debito tendono a crescere in percentuale al reddito.
In presenza di un vincolo politico, e oserei dire anche economico, a non aumentare ulteriormente le tasse, e della ben nota difficoltà a comprimere la spesa pubblica corrente, il rischio è che l’Italia si avvicini sempre più verso un punto di non ritorno. Servirebbero azioni radicali e politicamente difficili che solo un governo con una prospettiva di medio termine può poter intraprendere. Indipendentemente dal colore politico, l’attuale governo dovrebbe dunque poter cogliere questa sfida.
L’Italia è in declino strutturale, e non solo dagli anni ’90. I problemi di produttività sono molto più di lunga data, molto più profondi e radicati, e dunque molto più preoccupanti. Sin dalla metà degli anni ’70 ha smesso di crescere la produttività totale dei fattori, una misura dell’avanzamento tecnologico, dell’innovazione e della capacità di utilizzo efficiente dei fattori di produzione come lavoro e capitale.
Dagli anni ’70 l’Italia ha ‘drogato’ la sua economia con continue svalutazioni della lira e con un’enorme espansione del debito pubblico, sostenendo artificialmente la crescita del Pil. Ma esauriti questi artifici con il processo di avvicinamento all’unione monetaria, anche il Pil ha poi smesso di crescere. Per invertire tutto ciò non basta agire al margine, ma serve un impegno senza precedenti e una vera e propria rivoluzione economica. Tutto dovrebbe essere indirizzato a questa visione di lungo periodo, compresi i fondi elargiti dall’Europa proprio per aiutare l’Italia ad affrontare con più risorse le delicate sfide per il suo futuro.
In un libro recentemente scritto con Giampaolo Galli, ho individuato nella mancanza di meritocrazia, o se volete nel concetto più ampio di struttura per incentivi, la linea rossa che corre attraverso tutta la recente storia italiana. Si potrebbe anche parlare di mercato e di regole: il concetto è lo stesso. Gli ‘incentivi’ non dovrebbero essere quelli del bilancio pubblico, che si elargiscono con molta generosità per far felici questo o quel gruppo di interesse o di elettori. Dovrebbero essere delle regole chiare e semplici per far sì che gli operatori economici non dedichino il loro tempo a cercare di evadere o eludere le tasse, ad accaparrarsi questo o quell’incentivo statale, a bypassare le regole di mercato, ma puntino decisamente sul capitale umano e sulla competitività. Questa è la vera rivoluzione che l’Italia meriterebbe. Si può dire che stia realmente accadendo?
Ad essere ottimisti, si potrebbe avanzare l’ipotesi di una ripetizione, sia pur in forme diverse, del boom economico del dopoguerra, guidato da un’accelerazione nell’adozione di tecnologie, per lo più sviluppate altrove o, come in gergo tecnico si dice, un avvicinamento per imitazione alla frontiera tecnologica. L’idea è affascinante e motivante per un’economia tradizionalmente poco dinamica. Ma ha un qualche fondamento?
Gli elementi che porterebbero alla rivoluzione copernicana menzionata sopra, non sembrano emergere dai dati congiunturali. Nonostante il massiccio utilizzo di denaro pubblico, mostrano un impatto sulla crescita tutto sommato modesto. Gli indicatori strutturali, mostrano l’Italia ancora languire tra il 30° e il 35° posto nelle classifiche internazionali sulle varie dimensioni della crescita e della prosperità. Nemmeno l’evidenza aneddotica consente molto ottimismo. Le imprese e i lavoratori continuano a lamentarsi dei vecchi problemi dell’Italia che ne hanno impedito la crescita negli ultimi decenni.
Dunque, la discreta ripresa economica dalla pandemia in poi sembra legata per lo più ad un massiccio stimolo alla domanda, con modeste ripercussioni sul lato dell’offerta. Cosa resterà dell’attuale crescita economica quando tra due o tre anni si saranno esauriti i fondi europei, il Superbonus e gli altri stimoli alla domanda finanziati da debito pubblico italiano o dell’Unione europea?
Fare la diagnosi giusta è un primo importante passo, ma sembra che al momento il governo non l’abbia fatta. Non necessariamente questo è negativo. Di diagnosi ne sono state fatte talmente tante in passato, che basterebbe agire utilizzandone solo una parte per iniziare a ridare slancio all’economia italiana. Ma non sembra ci sia neppure una visione complessiva e una strategia coerente per la sua attuazione.
“Le persone con visioni dovrebbero andare dal medico” disse cinicamente Helmut Schmidt in passato. Ma se le mancate visioni si trasformassero in miraggi di crescita sarebbe ancor peggio perché giustificherebbero l’inazione.
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