Dopo il caso Eni-Nigeria e la presunta Loggia Ungheria
Come non separare le carriere dopo i fatti terribili di Milano?
L’inedito scontro interno alla Procura di Milano (e tra la Procura e un Collegio del Tribunale) esploso intorno al processo Eni e alla presunta Loggia Ungheria, volge verso esiti ancora del tutto imprevedibili. Come al solito, non mi occupo dei risvolti penali della vicenda, oggi nelle mani della Procura di Brescia. Si vedrà se e quali responsabilità penali verranno ipotizzate o escluse nei confronti dei vari Storari, Davigo, Greco, Pedio, De Pasquale e chissà chi altri. Mi interessa invece ragionare sulle evidenti implicazioni extra penali di questa vicenda, certamente clamorosa anche in considerazione del prestigioso profilo professionale dei suoi protagonisti.
Sarà bene ricordare che l’innesco della storia non viene né da indiscrezioni di stampa, né da polemiche politiche, ma da una sentenza del Tribunale di Milano, che assolve gli imputati del noto “processo Eni”. Nel motivare quella decisione, il Tribunale -vado per sintesi- sottolinea come la Procura di Milano (in quel processo rappresentata dal Procuratore Aggiunto dott. Fabio De Pasquale) avrebbe in sostanza omesso di mettere a disposizione del giudizio elementi di prova idonei a grandemente screditare il principale teste di accusa. Qui si innesta analoga accusa formulata dal sostituto procuratore Storari, che per suo conto stava indagando sulla presunta loggia Ungheria. Quel Pm lamenta inerzia del suo ufficio nell’approfondire la fondatezza o la eventuale calunniosità di quelle accuse, formulate dalle stesse gole profonde utilizzate dall’Accusa nel processo Eni.
Alle corte: il mondo scopre che un ufficio di Procura -e che Procura!- pur di portare a termine con successo (cioè con la condanna degli imputati) una indagine sulla quale ha investito energie, denaro pubblico e reputazione professionale, preferisce differire a momenti più opportuni il vaglio di circostanze di fatto (magari emerse successivamente) che potrebbero travolgere la credibilità dei principali testi di accusa in quella indagine. La ipocrisia che accompagna il dibattito politico e mediatico suscitato da queste clamorose vicende è francamente intollerabile, e disvela la ennesima mistificazione che da sempre pregiudica un serio, leale e costruttivo dibattito sugli assetti ordinamentali della magistratura. Infatti, uno dei principali argomenti che ci sentiamo opporre ogniqualvolta invochiamo la separazione delle carriere tra Pubblici Ministeri e Giudici è che in tal modo trasformeremmo i Pubblici Ministeri in un pericoloso corpo separato, reso d’improvviso ferocemente poliziesco perché privato della famosa “cultura della giurisdizione”.
Con questa formula magica si allude, in sostanza, alla cultura della prova che per vocazione appartiene alla magistratura giudicante, e che -restando le carriere unite- pare si voglia dire che contamini e illumini anche i Pubblici Ministeri. In nome di questa immancabile giaculatoria, si pretende di sostenere una sorta di terzietà innanzitutto del Pubblico Ministero, che non perseguirebbe a ogni costo una visione di parte nell’indagare e nell’esercitare l’azione penale, perché egli sarebbe educato, grazie alla commistione con i colleghi Giudici, a nutrirsi di una comune attitudine a valutare i fatti con severa imparzialità. Mica sono “avvocati di accusa” i PP.MM., ci sentiamo obiettare con qualche iattanza; loro hanno, appunto, “la cultura della giurisdizione”. Quella per la quale, se a un passo dalla conclusione di una complessa indagine dovesse emergere che il teste della corona, sulle cui parole hai costruito tutta la impalcatura dell’Accusa, è un calunniatore seriale, picconi tutto il tuo lavoro senza colpo ferire.
Sarà anzi per questo che non si riesce a sradicare l’abitudine dei media di salutare “il giudice Davigo”, “il Giudice Gratteri”, e così via spropositando. Proprio quello che è accaduto a Milano, giusto? Chissà se questa vicenda -salvo a voler assurdamente ritenere che costituisca una inconcepibile eccezione- possa aiutarci tutti a discutere di ordinamento giudiziario finalmente liberi dalle ipocrisie e dalle mistificazioni. Già se la piantassimo di chiamare giudici i Pubblici Ministeri, avremmo fatto tutti un gran bel passo avanti.
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