E allora, Dio, perché non hai spezzato il dito di Mengele? La Lettera a Dio, che chiude l’ultimo libro di Edith Bruck, Il pane perduto (La nave di Teseo, candidato al Premio Strega), è un’accorata invettiva sulla solitudine di chi dubita dell’esistenza di quel grande mistero che, in silenzio, osservava la Shoah. 11152 era il numero con il quale veniva chiamata questa ragazzina ungherese di dodici anni ad Auschwitz, deportata insieme alla sua famiglia nel 1944, e uscita solo dopo essere passata per i campi di concentramento di Dachau e di Bergen-Belsen, solo un anno più tardi e solo con una sorella.
Quella ragazzina, che intanto è diventata una donna e una scrittrice, mantiene tuttora la promessa fatta a due sconosciuti, compagni d’inferno: «Racconta – le dissero -, non ti crederanno, ma se tu sopravvivi racconta anche per noi». Sessant’anni fa esce il suo primo racconto, Chi ti ama così, scritto in un italiano tutt’altro che claudicante, benché imparato da autodidatta a Roma, la città che ha ospitato la sua lunga storia d’amore con il poeta Nelo Risi, le raccolte di poesie, le sceneggiature per il teatro e per il cinema e anche una parte di attrice ne I soliti ignoti di Monicelli. Ho conosciuto Edith Bruck, alla soglia dei suoi novant’anni, e mi è parso di sentire ancora la voce spigliata di quella ragazzina che rivendica il diritto di raccontare la sua infanzia perduta, il dolore di essere orfana della vita e le promesse tradite della favola d’Israele.
“Il pane perduto” è il titolo del suo ultimo romanzo, ma anche un’immagine di separazione e di memoria. Perché ha scelto l’italiano per raccontare la sua storia?
“Il pane perduto” è il simbolo sul quale mia madre ha fatto confluire tutto il suo dolore, la tragedia e la disperazione che abbiamo provato sulla strada dal ghetto ebraico fino ad Auschwitz. Alla fine della Pasqua ebraica, con una farina che ci era stata regalata da una vicina di casa nel mio paese in Ungheria, mia madre ha impastato delle forme di pane che avrebbe dovuto cuocere il giorno successivo. Ma all’alba i fascisti e i gendarmi ungheresi hanno bussato alla porta, quando lei era già pronta a infornare il pane, e questi ci hanno cacciato di casa, schiaffeggiando mio padre. Quando dico “pane” in ungherese, affiora quindi alla mente il ricordo di mia madre, orgogliosa di fronte al forno, con le gote rosse, ma anche tutto il male che ci è stato inflitto. L’ungherese è la lingua delle bestemmie e degli insulti dei fascisti. Quando lo dico in italiano, invece, il pane è quello del fornaio, la lingua che mi ha accolto prima a Napoli, la città dall’aria vibrante, dalla vitalità vocifera che si respirava tra i vicoletti con i panni stesi che svolazzavano; e poi a Roma, la lingua che mi ha dato una casa, una protezione e che mi ha fatto sentire libera. Ecco perché questa storia poteva essere raccontata solo in italiano.
In “Signora Auschwitz” lei lamenta il fatto di aver perso il senso della sua esistenza nelle varie occasioni di testimonianza nelle scuole. Come se tutta sé stessa fosse votata solo al racconto, nessuno era genuinamente interessato a lei come donna, scrittrice e intellettuale. Cosa l’ha spinta a ritornare a scrivere un libro di testimonianza?
Credo che dopo Auschwitz, la mia stessa sopravvivenza mi abbia rinchiuso in un’altra gabbia, quella dell’ebrea ungherese, sopravvissuta alla deportazione nazista. È vero, noi sopravvissuti siamo diversi, perché nessuno potrà mai capire il nostro vissuto, così come noi non potremmo mai dire fino in fondo le cose mostruose che abbiamo visto. Ricordo che in Ungheria nessuno voleva ascoltarci, tutti paragonavano la loro sofferenza con la nostra. Il dolore era troppo fresco per tutti, per questo io ho preso la carta e ho cominciato a scrivere, perché la carta sopporta tutto. La carta sopporta anche quello che non riesco a dire nelle scuole, perché mi sento in imbarazzo. Come si fa a dire a un ragazzino di quattordici anni che i nazisti giocavano a calcio con il teschio di un bambino? Purtroppo queste sono cose che vivranno in me fino alla fine della vita.
E a tal proposito, lei usa spesso un’immagine molto conturbante, quando dice di essere “incinta di Auschwitz”.
Auschwitz è stato per me come una fecondazione del male, un male che non si partorisce mai. Anche se scrivere può essere in parte una terapia, non è possibile espellere tutto questo vissuto dal cuore e dalla pancia. In realtà, non spero nemmeno di liberarmene, perché liberarsene significherebbe perdere la memoria.
Lei ha conosciuto Primo Levi e di lui ha scritto: «Pur non accettando mai quel suo gesto estremo, contrario alla sua lucidità anche nell’oscurità delle baracche, lo invidiavo perché non doveva più né scrivere né testimoniare a parole. Io mi ripetevo che non avevo il diritto di suicidarmi». Eppure lei ha desiderato la morte qualche volta, anche per amore…
La voce di Primo apparteneva alla storia, per questo avrebbe dovuto resistere. Quando ho saputo della sua morte, ero indignata, arrabbiata, perché non avrebbe dovuto cedere a questa debolezza, a questa depressione. Dopo la guerra, anche io e mia sorella abbiamo desiderato la morte, sia perché nessuno ci ascoltava, non sapevamo dove vivere, sia per amore e perché ci sentivamo abbandonate a noi stesse. Ci pentivamo di avere lottato tanto. Tanto ma per che cosa? La mia vita è cominciata in Italia, quando ho incominciato a scrivere, e quindi ho ripreso ad esistere.
Nel ’48, lei è arrivata in Israele alla ricerca di una casa, ma non ha trovato l’accoglienza che sperava. “Il pane perduto” è quindi anche la metafora di un paradiso perduto, di una Terra promessa che non si è rivelata tale?
Per mia madre, Israele era il paradiso. In Ungheria eravamo così poveri che andavamo a dormire senza cenare e l’unico cibo che avevamo era la favola su Israele che mia madre mi raccontava prima di farmi addormentare. A quel tempo, io ero come una neonata, ma anche Israele era uno stato neonato, che aveva bisogno di braccia forti per sparare e di divise da indossare con orgoglio, ma io mi sono sempre rifiutata di tenere in mano un fucile.
«A me bastava che una persona non fosse in divisa per diventarle amica», ha scritto. Recentemente il dibattito sulla gestione dell’urgenza Covid, affidata al generale Figliuolo, è stato particolarmente acceso per coloro, come nel caso di Michela Murgia, che rifiutano l’accostamento della retorica della guerra per la pandemia. Lei che la guerra l’ha vissuta, crede che sia giusto il paragone?
Io non chiamerei guerra una pandemia. La peste, l’ebola, certamente non in questa misura, sono state alcune delle malattie sempre presenti nella storia e spesso hanno ucciso anche più persone rispetto alle guerre. La guerra la fanno gli uomini, umani contro umani, e su di loro cade la colpa, la responsabilità. In Italia, se c’è una colpa umana in questa pandemia è quella della confusione della campagna vaccinale, del nepotismo intorno alle dosi.
Lo scorso 20 febbraio, Papa Francesco è venuto a farle visita a casa. Durante l’incontro lei ha parlato dei “cinque momenti di luce nella sua vita”. Cos’era quella luce?
La luce era la vita, la speranza che non è tutto buio pesto neanche in un campo di concentramento. Il Papa ha letto il mio libro e ha voluto incontrarmi per chiedermi scusa in nome dell’umanità. Quando ci sono questi incontri, prima con il Papa e poi quando ho incontrato anche Mattarella, stranamente mi sentivo indebolita, orfana, perché ho perso tutti e invece vorrei che mia madre mi vedesse e mi dicesse: «Come sei brava!». Il Papa è stato colpito da uno di questi momenti di luce, nel quale io scrivo di aver conosciuto un cuoco a Dachau che mi ha chiesto per la prima volta il mio nome, mi ha restituito un’identità che non fosse un numero e mi ha regalato un pettinino. Alla fine del nostro incontro, il Papa mi ha detto: «Volevo essere io quel cuoco!» e io mi sono molto commossa.
Attualmente giace in Commissione giustizia un disegno di legge contro le discriminazioni e i crimini d’odio su base di orientamento sessuale e identità di genere, fortemente ostacolato dalla Lega. «La stessa Lega che – come ha scritto – ammutoliva molti studenti che ho conosciuto». Cosa risponde a coloro che si appellano alla libertà di espressione per contrastare il Ddl Zan?
La libertà d’espressione è una cosa, una legge contro l’omofobia è un’altra. Anche la libertà d’espressione deve avere un limite, io sono ovviamente d’accordo con l’approvazione della legge. Oggi anche in Europa sono tornati gli antisemitismi, i razzismi. Siamo sempre pronti a odiare, a disprezzare il prossimo, è questo il problema più grande degli uomini. Non riconoscendo all’altro il diritto che hai tu, ognuno pensa di essere il migliore, ma non è vero neanche per sogno! Viviamo un momento molto complicato in Italia, anche politicamente. Mi va bene vivere qui, ma non mi piace l’Italia così com’è, vedremo come diventerà. Certo che avendo la Lega tra i piedi, la Meloni… è una cosa molto triste e tragica.
La senatrice Liliana Segre continua ad essere vittima di episodi di discriminazione razziale, di messaggi di odio da parte di coloro che negano la Shoah. A lei è mai capitato di subire l’intolleranza dei negazionisti?
In Italia no, ad eccezione di quelle battute banali sugli ebrei, ma quelle sono frutto dell’ignoranza. Non mi fanno male, perché la banalità non fa male. Purtroppo, gli ebrei non hanno nessuna possibilità di essere giudicati di per sé. Non è mai il singolo, è sempre un “voi”, e questo è già un pregiudizio. L’ebreo non può dire “io”. Nelle scuole sono stata fortunata, i ragazzi piangono, capiscono e giurano che non saranno mai più razzisti. Una sola volta, cinque ragazzi sono usciti dall’aula in cui portavo la mia testimonianza, perché stavano ascoltando la musica mentre io stavo parlando di mia madre, bruciata ad Auschwitz. Ma erano in 500, quindi per me contano i 495 studenti che sono rimasti.
Lei non ha mai denunciato nessuno, anche quando ne ha avuto l’occasione. Cos’è la giustizia per lei?
Io non sono un giustiziere. Non ho denunciato la kapò che ho incontrato in Israele, anzi io e mia sorella abbiamo portato a casa cinque soldati ungheresi fascisti, ai quali abbiamo dato anche da mangiare. Ho cominciato allora un cammino verso la pace con i nostri simili. Io non potrei denunciare nessuno, non sta a me giudicare nessuno. Ci penserà la giustizia. Non potrei dormire tranquilla se per colpa mia qualcuno sta in prigione. Pensi, un giorno è entrato un ladro in casa nostra e io e mio marito gli abbiamo detto: «Si accomodi, vuole un caffè?».