E subito riprende il viaggio come dopo il naufragio un superstite lupo di mare.

“Allegria di naufragi”. Il titolo di questa meravigliosa poesia di Giuseppe Ungaretti diventa monito per affrontare questi giorni difficili. Il poeta scrive i versi dopo gli anni terribili della Prima Guerra Mondiale: il superstite, come un lupo di mare, è pronto a riprendere il viaggio, perché scopre un’istintiva allegria e un’inaspettata vitalità proprio nei giorni disperati della catastrofe. Noi – che siamo ancora dentro il naufragio e tra i flutti di una tempesta individuale e collettiva –ancora non intravediamo la terra ferma, ma possiamo riconoscerci nella disperata allegria di cui parla Ungaretti. La tempesta spazza via le vecchie certezze economiche, politiche, sociali e perfino religiose, ma lascia nei reduci un impulso vitale carico di nuovi desideri e speranze.

«Non si tratta di filosofia, si tratta d’esperienza concreta» scrive Ungaretti: nella conoscenza diretta del dolore, ci dice il poeta, si riafferma la forza della vita. Ora che stiamo sperimentando la più grande emergenza globale dal secondo dopoguerra – chiusi in casa nell’attesa della fine della crisi sanitaria, ansiosi e terrorizzati di scoprire il nuovo mondo di domani – questo monito risuona potente e confortante: esiste una forza vitale nel cuore della “catastrofe”. Non è un caso che il primo significato del verbo greco da cui questo termine ha origine – kata sotto, strepho volgere – sia connesso proprio a un’azione concreta di capovolgere: arare la terra.

L’immagine è quella dell’aratro che rivolta il terreno, del vomere che penetra nel suolo compatto: ciò che prima era intero ora è frammentato in mille zolle diverse. Nelle inquietudini di questi giorni sospesi, percepiamo solo questa potenza distruttiva della catastrofe: il mondo che conoscevamo sembra scomparso, l’integrità delle nostre certezze è definitivamente lacerata. La catastrofe è un evento irreversibile che rompe per sempre l’ordine lineare precedente. Niente è più come prima. Ma all’azione dell’arare è connessa un’altra promessa: il terreno così dissestato sarà capace di una nuova fecondità. Ciò che prima stava sotto, ora è tornato in superficie: la terra ricomincia a respirare ed è di nuovo fertile, pronta per la concimatura e per la semina. Al trauma dell’aratura, segue una nuova e vitale fioritura. D’altronde, come recita un’antica poesia, «il fiore che sboccia nelle avversità non è forse il più raro e il più bello di tutti»?

In questa prospettiva, quindi, la fine di un mondo, non è la fine del mondo: dall’energia sprigionata dallo schianto – “l’allegria” di cui parla Ungaretti – si configura un nuovo inizio. Ma cosa piantare per raccogliere buoni frutti? Come immaginare gli scenari post-catastrofici per riprendere il viaggio nella giusta direzione? Ci viene in aiuto il secondo significato di questo enigmatico lemma greco. Katastrophé, infatti, è un termine che appartiene al linguaggio della drammaturgia antica: indica la conclusione della storia, la svolta narrativa, il rivolgimento improvviso della vicenda dell’eroe che porta a compimento l’azione drammatica.

Il prefisso kata, infatti, indica un movimento dall’alto verso il basso: la caduta finale dell’eroe conduce alla conclusione della vicenda con l’immancabile esito nefasto e luttuoso. Perché allora non partire proprio da qui, dall’estetica della catastrofe, dallo storytelling del naufragio? D’altronde, la letteratura, il teatro, il cinema, la serialità televisiva hanno raccontato la catastrofe e drammatizzato il cataclisma in mille declinazioni diverse.

E se la risposta alla realtà della pandemia che sta sconvolgendo il mondo fosse nascosta proprio nelle finzioni che, per secoli, l’hanno “messa in scena”? Perché non ascoltare coloro che hanno raccontato la fine di un mondo per scorgere il preludio di un nuovo possibile inizio, per capire come costruire nuove scialuppe dai frammenti rimasti a galla dopo il nubifragio, per sentir risuonare l’eco di quella misteriosa allegria del naufrago di cui oggi tanto sentiamo il bisogno? Consapevoli che, come scriveva il poeta Hölderlin più di due secoli fa, «soltanto nel profondo dolore risuona per noi divino il canto della vita».