La riforma della legge per l’elezione del Csm agita le correnti della magistratura. È normale che sia così. Se, come pare, i poteri e le funzioni dell’Organo di autogoverno non verranno ridisegnati e rimodulati in modo apprezzabile, è chiaro che Palazzo dei Marescialli resterà una meta irrinunciabile per le molte formazioni associative in cui è spacchettata la magistratura italiana. Luciano Violante, in una recente intervista su Il Dubbio, ha indicato nell’approvazione di una legge elettorale marcatamente proporzionale l’unica via praticabile per depotenziare le correnti, riducendone grandemente la proiezione consiliare con un voto pulviscolare.
In altri termini, più correnti saranno rappresentate nel Csm, meno peso ciascuna di esse potrà avere; e per giunta i gruppi dovrebbero essere spinti a ricercare accordi e mediazioni al rialzo, a raggiungere convergenze positive non potendo più garantire da sole i propri apparati e accoliti. La tesi è chiara e immagina che una rappresentanza frammentata o quasi sia di ostacolo a quelle spartizioni che sono state la cifra di tempi in cui un paio di correnti al massimo gestivano dozzine, se non centinaia di incarichi e nomine. In teoria la proposta non dovrebbe avere oppositori. Il pluralismo associativo della magistratura (al momento 6 sigle) si è sempre giustificato in nome della varietà delle opinioni e degli approcci al tema della giustizia e della sua organizzazione. Niente di meglio, allora, che garantire a tutti un diritto di tribuna, uno strapuntino al Csm in cui far valere le proprie posizioni e i propri punti di vista.
In teoria. In pratica gran parte dell’attività a Palazzo dei Marescialli non può che concentrarsi sulle attribuzioni costituzionali dell’organo che riguardano non tanto ideali quanto saltuarie prese di posizione sui temi generali della giustizia, ma più concretamente «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (articolo 105 Costituzione). Tutte cose, insomma, particolarmente concrete e vive, dove – sempre e comunque – si decide della sorte dei circa diecimila magistrati italiani e dei loro colleghi onorari. E questo senza considerare la pletora di incarichi extragiudiziari, di distacchi presso ministeri, istituzioni pubbliche, organi costituzionali e quant’altro che sempre dal Csm transitano.
Insomma, più che un parlamentino, come talvolta si dice, a Palazzo dei Marescialli siede una sorta di consiglio di amministrazione di un’azienda di medie proporzioni, con tutta la sua carica di aspettative, scalate, delusioni, promozioni e bocciature. Un universo in continua ebollizione. Il tema è come raffreddare la temperatura all’interno della magistratura italiana. Come sopire le ambizioni, alleviare le fatiche di tanti gravati da carichi di lavoro molte volte insostenibili, mitigare l’importanza degli incarichi direttivi e semidirettivi. Un’operazione complessa e di cui non si intravede neppure l’inizio. La strada maestra, com’è ovvio, è nella Costituzione secondo cui «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (articolo 107) e non per mostrine o gradi ed eliminare le diseguaglianze che si sono create in questi ultimi due decenni, tra tante api operaie e troppe api regine, dovrebbe essere il compito primario del legislatore. Parificare, democratizzare, livellare. uguagliare la magistratura italiana, per ricondurla nel suo necessario e naturale perimetro costituzionale, è un’opzione praticamente irrinunciabile e non ulteriormente differibile.
Per farlo occorrerebbero almeno tre mosse secche: a) abolire ogni fuori ruolo dagli uffici a eccezione dei posti apicali del Ministero della giustizia per i quali è giusto che il ministro scelga i propri collaboratori di fiducia senza restrizioni; b) sopprimere di circa la metà il numero delle corti d’appello (quattro nella sola Sicilia) e dei tribunali italiani la cui sopravvivenza è resa ogni giorno faticosa da perenni vuoti d’organico e che drenano risorse maggiori dei vantaggi che giungono all’utenza; c) delimitare la funzione paranormativa del Csm, ossia l’elaborazione di dozzine di circolari, linee guida e così via, e per questa via recuperare l’esclusiva soggezione dei giudici alla legge (articolo 101 Costituzione) e non al Csm, anche per quanto concerne le loro carriere; si tratta di riconsegnare alla legge sull’Ordinamento giudiziario (articolo 108) una centralità che è stata quasi del tutto sommersa da un profluvio di produzioni consiliari. Quest’ultimo punto esige, come ovvio, che il Parlamento voglia riappropriarsi della propria funzione di regolazione normativa della magistratura che ha dismesso da oltre 15 anni. Era il 2006 quando il governo di centro-destra mise mano all’ordinamento dei giudici in vari campi (dal disciplinare alle carriere sino all’organizzazione delle procure) e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Non è dato prevedere se e quando un progetto riformatore di questa latitudine entrerà nell’agenda delle forze politiche. Al momento l’urgenza del PNRR è tale da non concedere spazi a più complessive rivisitazioni. Ma bisogna essere leali verso il Paese: il modo con cui la magistratura è organizzata è un fattore che ostacola di per sé l’efficienza e il conseguimento di migliori risultati. Mettere mano ai codici, come si è fatto, o scrivere una nuova legge elettorale per il Csm non sarà sufficiente a raggiungere gli obiettivi imposti dall’Europa se mancherà un profondo e incisivo intervento sul modello di organizzazione che premi davvero i più capaci. Come il presidente Mattarella auspica, anzi invoca, ormai da molto tempo.