Con la Gazzetta Ufficiale dov’è stata pubblicata ancora fresca di stampa e la raccolta lampo sull’eutanasia e la legalizzazione della cannabis, i palazzi si trovano in pieno scompiglio di fronte alle novità sul referendum. Imputata: la digitalizzazione della raccolta delle firme per promuovere le iniziative popolari. E dire che si tratta di una modifica introdotta proprio dal Parlamento solo qualche settimana fa. Vabbè che si trattava di una seduta notturna (e qualche colpo di sonno non è da escludere) ma, dicono le cronache, l’approvazione è stata pur sempre all’unanimità. Cioè, tutti i partiti. È per questo che il dibattito scatenatosi in questi giorni sorprende un po’. E ancor di più sorprende la rapidità con la quale sono cominciate a fioccare le proposte per modificare le regole. Sicuramente una coincidenza. Attenzione, però, perché a volte risposte scomposte rischiano di confermare le ragioni degli altri.

Intanto distinguiamo merito e metodo. I referendum in questione sono molto divisivi e nessuno può assicurare che l’exploit si ripeta se e quando si andrà a votare. Il metodo però è difficilmente contestabile. Siamo uno dei paesi a più alta digitalizzazione delle attività pubbliche. Processi civili, penali, amministrativi telematici; rapporti con l’amministrazione (anche fiscale) sempre più dematerializzati (così tanto che per trovare un funzionario in carne e ossa che ti dia un chiarimento bisogna convocare una seduta spiritica), firma digitale, identità digitale, sanità digitale. Come sì fa a sostenere che i promotori di un referendum o di una legge di iniziativa popolare debbano continuare con i timbri e i bolli dell’epoca risorgimentale? Ci riempiamo la bocca di semplificazione e bocciamo una riforma che semplifica. La Costituzione non dice come si debbano raccogliere le firme, richiede che siano raccolte.
E se 500.000 cittadini sono considerati un numero troppo esiguo, com’è che ce ne accorgiamo solo oggi? Alzare l’asticella solo perché la semplificazione ha funzionato non è solo un nonsenso in sé, è anche una confessione ai cittadini: semplificare sì, ma solo quando conviene. Sarebbe come dire che digitalizzare la giustizia aumenta il numero di processi. Sarà anche vero, chissà, ma non è certo tornando indietro che si risolve il problema.

Molto più serio è un discorso di rivisitazione complessiva della procedure di iniziativa popolare. Perché tutti quegli ostacoli per promuovere un referendum? Perché i referendum non possono essere presentati nell’anno antecedente le elezioni o votati in caso di scioglimento? Perché il Parlamento non si pronuncia mai sulle leggi di iniziativa popolare, pur previste dalla Costituzione? Non ci sono dubbi sul fatto che la popolazione dal ’48 ad oggi sia aumentata e il numero di sottoscrittori richiesti è percentualmente più esiguo. Riallineiamolo se necessario. Ma non perché l’obiettivo è sabotare e punire. Del resto a fronte dell’incremento demografico c’è stato un crollo della partecipazione politica. E allora riconosciamo che, anche il famigerato quorum di validità, forse ha bisogno di un tagliando. Chiedere la metà degli aventi diritto per la validità del referendum, compresi gli italiani all’estero, magari anche i defunti, è anch’essa una distorsione da sanare. L’astensionismo è in caduta libera anche alle elezioni, mentre il quorum referendario non si tocca, e i sostenitori del no al referendum (quale che esso sia) possono continuare furbescamente a invitare all’astensione annettendosi la quota cospicua di astensionismo fisiologico, senza combattere a viso aperto. Nessuno può ritenersi soddisfatto se, per approvare una disciplina sul fine vita dopo moniti, ordinanze e sentenze della Corte costituzionale, si debbano mobilitare i cittadini con uno strumento, quello referendario, che è certamente meno cesellato di quanto possa essere una legge parlamentare. Ma tant’è, è il Parlamento che se n’è lavato le mani.

Un esempio? Le Camere possono varare una disciplina per evitare il referendum fino al giorno in cui si votasse. Purché non barino facendo il gioco delle tre carte (C. cost., sent. 68/1978). Ci si misuri su questo e si faccia la riforma che la Corte costituzionale ha richiesto da tempo. Il termometro della democrazia diretta va sempre confrontato con quello della democrazia rappresentativa. Se questa funziona, i referendum diventano residuali. Così come li ha pensati il Costituente, del resto. Ma perché funzioni e i cittadini siano soddisfatti è necessario che la politica faccia quelle riforme attese da decenni e abbandoni le convenienze di un gioco politico ormai decrepito, di cui però conosce tutti i trucchi. E chi lascia il noto per l’ignoto? E per favore, non mettiamo in mezzo la Corte costituzionale, costringendola a supplire alle deficienze della politica. Il sindacato di ammissibilità del referendum una volta raccolte 100.000 firme, sempre ammesso che possa introdursi con legge ordinaria (v. art. 2 l. cost. 87 del 1953), contraddice frontalmente la motivazione di chi la propone.

Ma chi ci dice che valutare le prime 100.000 firme sia una scelta sensata. Magari sono le uniche, assemblate da qualche minoranza intensa, assai abile a smanettare nel mondo digitale. E così avremo fatto lavorare inutilmente la Corte costituzionale, per una raccolta che non raggiungerà mai la soglia richiesta, solo perché il palazzo non si ritiene in grado di reggere l’impatto politico di una raccolta blitz? Insomma, piuttosto che sperare nei supplementari, interveniamo in modo organico sui referendum e sulle riforme della democrazia rappresentativa? Sarà in grado la politica di questo colpo d’ala? O continuerà a inseguire, in debito d’ossigeno, quello che distrattamente si è lasciata sfuggire di mano, anche se, una volta tanto, era una buona cosa? Certo, continuando così, il solco tra cittadini e istituzioni non è destinato a ridursi.