1. Il “sismografo” della professionalità dei magistrati non funziona bene. E a volte non funziona affatto.
Il complicato apparecchio amministrativo dovrebbe misurare la complessiva qualità del lavoro di giudici e pubblici ministeri. Registrando non solo e non tanto le più gravi negligenze o violazioni della legge sostanziale o processuale (per questi casi c’è il procedimento disciplinare) ma le “costanti” positive o negative dell’operato dei singoli. Ad esempio il ripetuto rigetto da parte dei giudici di richieste e di iniziative di un pubblico ministero o il sistematico succedersi delle riforme o degli annullamenti delle sentenze di un giudice nei diversi gradi di giudizio. Se la strumentazione predisposta per misurare e vagliare l’operato dei magistrati perde colpi, la loro responsabilità professionale diventa letteralmente introvabile. E alcuni magistrati possono continuare impunemente a far danni e a fare carriera a differenza di quanto avviene in altre professioni intellettuali. È questa la denuncia dell’Unione delle Camere penali italiane – affidata ad un documento del 6 gennaio di quest’anno – che ha innescato una discussione tra avvocati e magistrati svoltasi sulle pagine de Il Riformista e altrove.

2. Il sismografo inceppato di cui parliamo sono le valutazioni periodiche di professionalità.
Una procedura lunga, complicata, formalmente minuziosa che si ripete ogni quattro anni e che si dipana attraverso diversi adempimenti: autorelazione del magistrato, esame di provvedimenti estratti a sorte e forniti dall’interessato, rapporto del capo dell’ufficio, parere sulla professionalità emesso dal Consiglio giudiziario, giudizio finale del Csm. Un mare di carte che dovrebbe fornire un quadro fedele dell’operato dei magistrati e rendere conto della qualità della loro attività. Eppure in molti, troppi casi, ciò non avviene, perché le valutazioni appiattiscono i meriti, resi uniformi dal linguaggio burocratico, e non registrano quasi mai le cadute di professionalità. Sul filo dell’ironia si può dire che dalle valutazioni di professionalità i magistrati emergono quasi sempre come puntuali, laboriosi, competenti, addirittura geniali. Veri e propri geni “compresi”, sottratti al triste destino della maggior parte dei geni, ai quali tocca di essere misconosciuti dai loro contemporanei. È perciò legittimo chiedersi perché nelle valutazioni di professionalità non affiorano quei profili critici del modus operandi di alcuni giudici e pubblici ministeri che in molti conoscono e di cui molto si parla negli uffici giudiziari e nell’ambiente esterno.

All’origine di questa congiura del silenzio sta una tenace resistenza corporativa? O l’idea che i magistrati sono agenti e parafulmini dei conflitti e perciò vanno comunque messi al riparo da giudizi interessatamente malevoli? O, infine, l’intenzione di preservare negli uffici giudiziari una pace che sarebbe compromessa da pareri realistici e severi?

Le difficoltà del giudiziario e l’asprezza del clima che lo circonda nel nostro Paese forniscono sostegno a ciascuna di queste motivazioni. E però, se si vuole rendere effettiva la responsabilità professionale è necessario uscire dalla palude nella quale le valutazioni di professionalità si sono impantanate, indicando credibili rimedi. Il primo: responsabilizzare i controllori. Chiamando (come oggi “di fatto” non avviene) i dirigenti degli uffici, che sono i primi giudici della professionalità, ad assumere la responsabilità per le informazioni ed i giudizi che, alla prova dei fatti, si rivelino non veritieri. Se un capo dell’ufficio redige una valutazione positiva (o elogiastica) della tempestività e della capacità di lavoro di un magistrato e questi, a seguito di una ispezione o di una segnalazione esterna incorre in una sanzione disciplinare per ritardi o scarsa laboriosità, il dirigente dovrebbe a sua volta essere chiamato dal Csm a rendere conto del suo giudizio. Ed analoga richiesta di rendiconto dovrebbe essere rivolta ai dirigenti che rispondono, con vaghe e fumose formule burocratiche, alle puntuali domande contenute nelle schede di valutazione sulla “corrispondenza” tra richieste avanzate da un pubblico ministero e provvedimenti adottati dai giudici o sui dati patologici delle decisioni non confermate nei successivi gradi di giudizio. Per non parlare, infine, dei casi più eclatanti nei quali è la giustizia penale a dover intervenire sulle cadute professionali che si traducono nella commissione di reati.

Cominciare a “controllare i controllori” è un rimedio insufficiente? Tutt’altro. Sarebbe un antidoto efficace alla irresponsabilità burocratica di chi valuta, che rappresenta la prima fonte delle storture e delle fallacie del sistema. Se, come tutti riconoscono, non può essere un singolo caso, magari posto sotto i riflettori dai media, a fondare un credibile giudizio negativo sulla professionalità di un magistrato, è solo rivitalizzando e restituendo credibilità alle valutazioni professionali complessive e sistematiche che si può rendere effettiva la responsabilità professionale.
A questo primo passo dovrebbe seguirne un secondo non meno significativo: moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nelle valutazioni di professionalità e garantire la piena trasparenza dell’intera procedura valutativa. Nel ddl di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (A.C. 2681) il Ministro della Giustizia propone di semplificare le procedure e di introdurre un “diritto di tribuna”, cioè la facoltà per i cd. componenti laici dei consigli giudiziari (avvocati e professori universitari) di partecipare alle discussioni e deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non sarebbe una novità assoluta ma solo la generalizzazione di un metodo virtuoso, giacché diversi consigli giudiziari hanno già adottato, con norme interne, questa regola di apertura e di trasparenza dei lavori.

Su questa strada occorre procedere speditamente, senza arretramenti o dietrofront magari giustificati in nome dell’esigenza di tutelare la privacy dei magistrati. L’invocazione della privacy, sacrosanta per la sfera della vita privata, rischia di divenire, sul terreno professionale, uno schermo opaco, pretestuoso ed ingiustificato. Anche perché la privacy professionale dei magistrati ha un nome antico: corporativismo. La forza ed il radicamento istituzionale del governo autonomo della magistratura consentono di aprire le stanze nelle quali lavorano i magistrati senza che ne derivino soverchi pericoli per la serenità e indipendenza della stragrande maggioranza dei magistrati che operano con scrupolo e professionalità. A patto di sapere che lo scopo principale delle valutazioni non è mettere in fila i magistrati alla ricerca dei più bravi (compito praticamente impossibile data l’estrema diversità e complessità dei mestieri del magistrato) ma di individuare e stigmatizzare , nell’ottica della c.d. “selezione negativa”, proprio le patologie professionali su cui si appunta la denuncia delle Camere penali. Lavorando con umiltà in questa direzione si può sperare di sanare una clamorosa contraddizione. Quella tra l’esperienza quotidiana della giurisdizione – nella quale gli utenti della giustizia si rendono subito conto della professionalità, o delle carenze di professionalità, di un magistrato – e la difficoltà di trasporre questa razionale percezione nelle valutazioni ufficiali sul suo lavoro.

*Già magistrato, direttore
della rivista “Questione Giustizia”

Nello Rossi*

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