Il commissario Fitto alla prova di europeismo, la gestione di mille miliardi di euro e il ruolo dell’Italia: sul tavolo la visione di Draghi

La querelle sulla nomina europea di Raffaele Fitto non è casuale. Il suo esito può districare diversi nodi politici. Si può dire che sia una finestra sul domani. Fitto vicepresidente esecutivo con deleghe su Coesione e Pnrr significa perlomeno tre grandi novità, una sul ruolo dell’Italia e altre due relative ai nuovi equilibri europei.

Un italiano in quella poltrona comporta la diretta gestione di oltre mille miliardi di euro, e su un tema come il Next Generation EU da cui dipende il futuro stesso della coesione europea. Il peso politico del neovicepresidente sarebbe incomparabile persino rispetto a quello avuto, e ben gestito, da Paolo Gentiloni nella scorsa legislatura. Ciò equivale a blindare la centralità di Roma nella nuova Europa, orfana dell’asse franco-tedesco che la guida e la orienta da tempo immemorabile.

In secondo luogo, l’ascesa di Fitto nel governo von der Leyen ristruttura in modo visibile la vecchia “maggioranza Ursula”. La narrazione della presidente – “questa nomina non implica che i conservatori entrino in maggioranza” – mira a rassicurare socialisti, verdi e liberali. Ma è anche chiaro che un vicepresidente con mansioni così delicate, in un organismo come l’Unione, ben più centrato sull’esecutivo che sul Parlamento, è destinato a produrre l’effetto esattamente opposto. A parte qualche prevedibile gioco delle parti su argomenti come il trattato di Dublino sull’immigrazione e le case green, Giorgia Meloni avrà oggi meno che mai interesse a tenere l’Italia e il suo partito fuori dai giochi. Anzi, l’eventuale luce verde sulla designazione di Fitto ne accende un’altra ancor più verde sulla fase politica in cui Fratelli d’Italia votò contro la von der Leyen. Diventa logico pensare che si trattò di un voto pilotato, che non per caso fu preceduto da un lungo colloquio fra le due leader, Ursula e Giorgia, che dalla nascita del governo Meloni a oggi hanno costruito una solida intesa. Con Fitto al vertice dell’Unione, inoltre, si sbiadisce forse definitivamente il pesante quadro di alleanze finora rivendicato da FdI, che va da Orbán a Vox fino al partito della Le Pen.

La terza questione è la più rilevante e di prospettiva. La nuova agenda-Draghi fa discutere e divide. E le riluttanze vengono soprattutto dai paesi del Nord. La visione sostanzialmente keynesiana di Draghi, padre dell’ormai storico “whatever it takes” post-pandemia, si incentra su forti investimenti che segnano l’irreversibile cammino comune della comunità europea. Bene, non è azzardato pensare che sul tavolo di Fitto ci saranno sia il denaro sia la vision dell’ex presidente della Bce. E anche qui non è un caso che Draghi sia stato invitato a Palazzo Chigi per un colloquio – si presume – di respiro strategico con la presidente del Consiglio.

La partita in gioco, insomma, è altissima. I socialisti sembra abbiano deciso di dargli via libera, mantenendo delle riserve di forma solo sulla vicepresidenza. Le loro dichiarazioni (“saremo rigorosi, valuteremo se il programma di Fitto è pro-europeo”) sono più che eloquenti. Con Fitto in cabina di regia, sono destinati a perdere il peso politico degli ultimi anni. Ma è un rischio calcolato. I voti sono in generale calo, quindi per loro è meglio accettare di allargare l’area della politica amica e intanto schiodare il maggiore partito italiano dal fronte di Visegrad.

Elly Schlein, sia pure tirata per la giacchetta dalla sinistra del campo largo, sembra orientata a votare “sì”. E anche questo sarebbe un buon risultato per l’Italia. Verdi e liberali appaiono meno disponibili, anche se il mantra resta uno: Fitto dimostri di essere un vero europeista. Eh, sì. In politica nulla è gratis. L’aspirante vicepresidente dovrà convincere di aver rotto i ponti con un certo sovranismo protestatario che non c’entra con l’Unione, con l’economia comune, con il piano Draghi e neppure con i valori occidentali.