Il caso e le polemiche
Con Cotticelli cade il mito del commissariamento come strumento con cui imporre la legge
Il generale Cotticelli non è l’unica vittima dello scoop giornalistico che gli è costato la poltrona di commissario straordinario per la sanità in Calabria. Insieme a lui, persona perbene sia chiaro, ne esce a pezzi l’idea che si possa metter mano a mali endemici e strutturali degli apparati burocratici del paese con l’intervento taumaturgico di uomini d’ordine che – dismessi i panni di un altro mestiere – si improvvisino gestori di macchine complesse e claudicanti. La frase del primo ministro francese Clemenceau è troppo nota perché sia utile ricordarla, ma questa volta ci casca a proposito: «La guerre! c’est une chose trop grave pour la confier à des militaires». E se quella alla pandemia è una guerra, secondo il linguaggio retorico di molti addetti ai lavori, lo sradicamento delle influenze mafiose e massoniche nella sanità calabrese, non è roba da meno.
Una cosa in effetti troppo grave per lasciarla in mano ai generali, prefetti, magistrati. Servirebbero competenze, attitudini scientifiche, esperienze manageriali complesse, conoscenza analitica delle regole di finanza pubblica. Al posto di questi introvabili reggitori della cosa pubblica, la politica nazionale, e non solo, risponde con la selezione e l’invio in zona di guerra di soggetti dalla (più o meno) specchiata carriera consumata in settori della pubblica amministrazione concepiti come idealmente esenti da contaminazioni illegali. Quasi che il complesso apparato statale disponesse di inesauribili giacimenti di professionalità e di moralità a cui attingere nelle emergenze, neanche fosse la Roma di Cincinnato. Un paradosso e una conclamata finzione se solo si pensa al nugolo di scandali che trafigge questi stessi settori dell’amministrazione pubblica – dalla magistratura alle forze di polizia, passando per le forze armate o i prefetti – che hanno riccamente riempito le cronache degli ultimi tempi con arresti e condanne, oltre che con radicati fenomeni di malcostume carrieristico.
Cade, così, in modo plateale e non privo di risvolti naif, finanche nelle maldestre giustificazioni televisive, il mito del commissariamento come strumento con cui le riottose regioni del Sud (prima tra tutte la Calabria) devono essere ricondotte sotto l’imperio della legge. L’aveva detto con chiarezza il compianto Luigi De Sena (vice capo della Polizia, superprefetto, senatore, vice presidente della Commissione parlamentare antimafia): il commissariamento dei comuni e delle Asl per infiltrazioni mafiose è un clamoroso fallimento, un’aberrazione normativa da archiviare al più presto. L’idea che, con qualche sortita dall’alto dei palazzi romani, si possano ripristinare le condizioni di agibilità democratica delle burocrazie infette è innanzitutto il frutto di una grave miopia politica e istituzionale, la stessa che porta a ritenere che l’azione repressiva possa da sola ribaltare le condizioni di popolazioni intere soggiogate da malaffare, apparati deviati e mafie. Ma non solo.
Questa comoda delega in bianco (Cotticelli era stato riconfermato da pochi giorni senza che nessuno ne avesse controllato l’azione anti-Covid) cela anche un proposito nefasto, quello di imprigionare per sempre il Mezzogiorno in una rappresentazione del tutto negativa, di dipingerlo agli occhi della pubblica opinione come un coacervo di irredimibile illegalità. Con l’implicito retro pensiero che sia quanto meno sconveniente sprecare risorse sempre più preziose e scarse in quella terra di infedeli. Sia chiaro: le popolazioni e le classi dirigenti meridionali hanno grandi responsabilità, ma somministrare una cura a base di manette e di commissari straordinari non ha dato e non darà alcun risultato, alcuni decenni lo dimostrano ampiamente. Con la conseguenza paradossale che il caso del generale Cotticelli ha ridato fiato a quelle componenti più retrive del meridionalismo che, comodamente, addossano allo Stato la responsabilità dei propri mali.
Il saccheggio delle risorse della sanità in Calabria è consustanziale alla vita stessa della regione Calabria; uno strumento formidabile di potere e di consenso e non sarà certo un caso che tutti i governatori, di ogni colore, facciano a sportellate con il governo nazionale da oltre 10 anni per riappropriarsi della gestione della vorace macchina sanitaria. Che la cura sia stata del tutto sbagliata non vuol dire che il male non esista, come qualcuno vorrebbe far credere in queste ore alla disperata popolazione di Calabria, chiusa in casa e affossata in ogni speranza di ripresa dalla scellerata condizione del proprio apparato sanitario che ha fatto, in decenni, molte (ma molte) più vittime di Covid-19. Virus sinora pietoso verso le terre più misere d’Italia, ma non tanto da risparmiare il successore del martoriato Cotticelli, visto che – prima di prendere in mano le briglia del sistema sanitario calabro – dovrà un po’ ingloriosamente smaltire gli effetti del contagio e chissà dove. Fatto questo che i calabresi hanno ravvisato come scaramantico, cattivo presagio.
In tutta questa epifania dell’incapacità che cela anche un metodico pregiudizio, c’è qualcuno che si salva e che riporta a casa una certa qual dignità. E‘ la mitica Maria, la cui voce, evocata dall’imbarazzato Cotticelli, si ode in un fuori campo da incastonare. Al trafelato generale che la chiama in soccorso per rispondere alle domande del giornalista – venuto da Roma a scoprire quello che tutti avrebbero dovuto sapere in Calabria – la mitica Maria (rimasta senza volto) risponde da navigata esperta di comunicazioni e da maestra di vita: «La devi finire, tu devi andare preparato quando vai a queste cose». Non si improvvisa davanti alle telecamere. Avrebbe dovuto saperlo il malcapitato che, forse, sperava di cavarsela con le solite rassicurazioni di comodo che tanti suoi colleghi degli assessorati alla sanità di mezza Italia dispensano a telecamere accese in questi mesi.
Una mezza confessione, infine: forse il progetto anti-Covid non lo avrebbe fatto nessuna altra persona sensata al posto del generale Cotticelli; sarebbe stata carta straccia che, come si vede in questi giorni funesti, non è stata concretamente attuata in nessuna regione. Però qui Maria ha sbagliato, doveva ricordare al suo capo la prima legge dell’amministrazione pubblica italiana: le carte devo stare a posto, poi si troverà un altro che possa pagare il conto. Anche se il piano ci fosse stato, la Calabria si beccava comunque il cartellino rosso.
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