Criminologia confusa con diritto penale
Con il ddl femminicidio si esalta la vendetta privata di genere: così si asseconda il protagonismo della persona offesa

La demagogia del populismo penale rappresenta un morbo endemicamente presente nella politica italiana. In un climax ascendente, ogni Governo, a prescindere dal colore politico, insegue, per fini di propaganda, le pulsioni di una società vendicativa e refrattaria all’idea stessa del garantismo. A ben vedere, politica e società si sobillano vicendevolmente nel sadismo giudiziario utile per esorcizzare tutte le crisi della contemporaneità, da quella valoriale fino a quella economica. L’ultimo disegno di legge, certamente tale solo in ordine di tempo, rappresenta però un notevole salto di qualità anche in quella scala inversa di valori rappresentata dal panpenalismo rancoroso e dalla negromanzia inquisitoria.
La formalizzazione in veste giuridica del femminicidio e delle aggravanti di genere è l’apoteosi del più ottuso e becero giustizialismo.
A prescindere dal macroscopico difetto di determinatezza del nuovo art. 577-bis c.p., non si può punire una condotta tenuta per odio verso la persona offesa in quanto donna. Il nostro ordinamento si fonda sul principio di uguaglianza che considera tutti i cittadini uguali dinanzi alla legge senza distinzioni di sesso (art. 3 Cost.). Cosa accadrebbe se la stessa condotta fosse tenuta da una donna per odio verso la persona offesa in quanto uomo, inteso come appartenente al genere maschile? La violenza va punita in sé, in quanto tale, per il suo oggettivo disvalore, a prescindere dal genere dell’autore del reato o della persona offesa.
Criminologia confusa con diritto penale
Non è ammissibile confondere la criminologia con il diritto penale che deve rimanere saldamente ancorato a elementari princìpi di civiltà giuridica, come il divieto di distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche o condizioni personali e sociali. Il fenomeno della violenza di genere è certamente una piaga della nostra società, un’indiscutibile questione criminologica le cui radici sono profondamente culturali, ma l’omicidio commesso “per odio o per reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà e della personalità” non può essere costruito come un reato proprio dell’uomo in danno della donna, dovendo essere punita allo stesso modo anche la medesima condotta tenuta dalla donna in danno di un uomo. Quando il fatto tipico può essere indifferentemente realizzato da ogni essere umano, il reato proprio di genere confligge con il divieto costituzionale di discriminazioni in base al sesso.
Siamo alla grammatica elementare del diritto, ma il livello di incultura dell’attuale legislatore è tale da non consentirgli nemmeno una vaga percezione del pericolo insito nella rottura del principio di uguaglianza che è l’asse portante della nostra democrazia. Il paradosso è che si incorre in un’odiosa discriminazione di genere proprio nell’intento di fornire una risposta punitiva esemplare a un allarmante fenomeno criminologico di genere. Come da inveterata tradizione, al diritto penale del nemico si accompagna un sistema processuale d’eccezione, i malfamati doppi (in realtà multipli) binari su cui scorrono i treni ad alta velocità di accertamenti sommari fondati sulla presunzione di colpevolezza.
Con ddl femminicidio si esalta la vendetta privata
Al di là della discutibile tecnica normativa, il ddl sul femminicidio esalta, senza più alcun residuo pudore, la vendetta privata. Una regressione allo stato pregiuridico della barbarie in cui il femminicidio e i reati ad esso assimilati mediante aggravanti di genere richiamano forme di vendetta primitiva affidate alla gestione diretta della donna persona offesa. Così vanno lette le norme che impongono oneri informativi strumentali all’esercizio di un potere di veto rispetto alle scelte remissive dell’imputato, come il patteggiamento. A parte l’ingenuità di ritenere patteggiabile il tentato femminicidio, si attribuisce alla persona offesa il diritto di interloquire sulla pena, perfino sulla meritevolezza degli sconti legati al rito e, quindi, non solo al disvalore della condotta.
Una imbarazzante confusione di idee che porta a un’unica possibile lettura: l’introduzione di un nuovo soggetto processuale, solo femminile, che, avendo subìto il reato di genere, è il titolare del diritto alla vendetta privata; diritto con il quale anche il giudice deve fare i conti, essendo obbligato a motivare espressamente le ragioni dell’eventuale rifiuto delle richieste punitive provenienti dalla persona offesa. Non si può non cogliere la novità dirompente che segna il gravissimo arretramento della civiltà del nostro ordinamento penale. Attribuire dignità giuridica alla pretesa vendicativa della donna persona offesa significa regredire a forme barbariche di giustizia penale che non avremmo mai pensato di rivivere nell’epoca del costituzionalismo moderno. Eppure, è proprio questa la volontà del nostro legislatore: legittimare un fenomeno che si riteneva superato dal monopolio punitivo dello Stato fondato sul giusto processo e sulla giusta pena.
Assecondare il protagonismo della persona offesa
La vendetta privata non può prescindere da manifestazioni esemplari, plasticamente rappresentate dall’ergastolo che campeggia nella superfetazione dell’art. 577-bis c.p., come se la pena massima non fosse mai stata appannaggio degli omicidi aggravati commessi in danno di una donna, mentre la cronaca giudiziaria ci rammenta che proprio quella condanna è l’esito ormai pressoché scontato dei processi per “femminicidio”. Un ergastolo manifesto al quale consegue, nell’assioma inquisitorio della carcerazione preventiva, l’innesto di nuovi automatismi applicativi per la custodia cautelare. Basterà essere sospettati di femminicidio o di reati con aggravanti di genere per vedersi incarcerati, in quanto soggetti considerati pericolosi in forza di una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari. E anche sul tema del mandato obbligatorio di cattura la persona offesa potrà farsi latrice della sua pretesa punitiva anticipata. È un mantra quello dei diritti all’informazione e dei conseguenti poteri di veto rispetto a ogni richiesta proveniente dall’imputato, anche nella fase esecutiva. La pena deve essere esemplare e anticipata.
Il cerchio della vendetta privata si chiude con le previsioni che impongono al pubblico ministero, ossia al rappresentante dello Stato, di assecondare il protagonismo della persona offesa, dal suo ascolto diretto, pena la revoca della titolarità dell’indagine, fino all’organizzazione dell’ufficio di Procura, tutta rivolta a dare priorità assoluta ai procedimenti di codice rosso, confinando nell’oblio la persecuzione penale degli altri pur gravi reati. Pensavamo di essere abituati al peggio, ma questo ddl, facendo strame del principio di uguaglianza e segnando il ritorno processuale alla vendetta privata, sia pure di genere, è un salto quantico nella barbarie. Altro che riforma liberale della giustizia.
Oliviero Mazza – Professore ordinario di procedura penale
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