Dopo circa 26 anni di attesa, è stato finalmente pubblicato il bando di concorso per dirigenti penitenziari. 45 posti ma solo 38 sono disponibili a chiunque possegga i requisiti. Gli altri sono riservati a “dipendenti dell’amministrazione inquadrati nella III area funzionale del ruolo comparto funzioni centrali ovvero nei ruoli direttivi del corpo di polizia penitenziaria con almeno tre anni di servizio”. Torna così il progetto mai sopito di militarizzare le carceri ponendo a capo degli istituti di pena non più civili bensì commissari di polizia penitenziaria. Un controllo interno che non sfugge alle ansie di meccanismi corporativi.

Già nel 2016 il Dott. Gratteri, allora al vertice della Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità istituita presso Palazzo Chigi, aveva inserito la militarizzazione delle carceri nel suo corposo progetto di riforma. Pochi mesi fa, il tentativo di destituire il primato gerarchico del direttore era stato messo in atto nello schema di decreto legislativo “Correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia e delle forze armate”, fortunatamente non andato a buon fine.

Oggi la minaccia torna nel bando di concorso: il 15% dei nuovi dirigenti delle nostre prigioni indosserà una divisa. Eppure le regole penitenziarie europee (raccomandazione dell’11 gennaio 2006 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa) recitano: «Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale». Prevedono che gli istituti siano gestiti in un contesto in cui sia prioritario l’obbligo di trattare tutti i detenuti con umanità e di rispettare la dignità che è propria di ogni essere umano; che il personale penitenziario sia formato e orientato ad un ruolo non solo di vigilanza ma anche e soprattutto di verifica che il carcere serva alla restituzione dell’individuo in società; che sia la direzione dell’istituto a indicare le linee guida per assicurarsi che la reclusione miri a tale scopo; che ogni istituto abbia un direttore qualificato per il suo ruolo con riguardo alle sue qualità personali e alle sue competenze amministrative, alla sua formazione e alla sua esperienza professionale; un direttore che sia incaricato a tempo pieno e dedichi tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali. Richiedono, inoltre, che le autorità penitenziarie assicurino che ogni istituto sia costantemente sotto la completa responsabilità del direttore, del vice direttore o di un funzionario incaricato.

Il direttore deve essere un tutore esterno e terzo, vestire panni civili e porsi come garante della sicurezza e del rispetto di tutte le regole che proiettano la pena alla sua funzione costituzionale. E ciò nel rispetto di un concetto di sicurezza che mira alla protezione della società attraverso la riabilitazione della persona detenuta e il buon esito del reinserimento sociale. Va quindi respinto con forza il nuovo tentativo di militarizzare gli istituti penitenziari. Basti, per comprendere appieno, evocare le norme dell’ordinamento penitenziario in materia di impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione: «Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto». E poi: «Gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore». Un direttore in divisa impone, anche nell’immaginario collettivo, la visione di un carcere sempre più chiuso e separato dalla comunità, un non luogo protetto da confini di filo spinato dove la punizione soppianta la Costituzione.