Tanto tuonò che piovve. Vladimir Putin, allineandosi alla risoluzione approvata dalla Duma di Stato ha riconosciuto formalmente – in diretta televisiva – le autoproclamate repubbliche separatiste (e filorusse) di Doneck e Lugansk, che si trovano entrambe nel Donbass, una regione dell’Ucraina orientale a prevalenza russofona. Come se volesse sfottere la Nato, Putin ha motivato l’invio di soldati a Doneck e Lugansk definendola una missione di peacekeeping per contrastare un “genocidio” in corso nella zona, da parte di Kiev: una accusa che la comunità internazionale ritiene infondata ma che sembra essere stata sfruttata come pretesto per un’invasione.

La mossa di Putin ha spiazzato la comunità internazionale. Con il riconoscimento delle sedicenti Repubbliche autonome del Donbass, Putin ha rovesciato il fronte. Tocca al governo di Kiev andarsi a riprendere con le armi i territori sottratti all’Ucraina, proprio quando Putin indossa nuovamente i panni del negoziatore, dopo aver creato un cuscinetto tra i confini russi e quelli ucraini. Intanto sono iniziate le sanzioni, i cui effetti collaterali ricadranno anche sui paesi che le impongono. Esemplare è il caso della Germania. Il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato il congelamento del gasdotto Nord Stream 2, non ancora in funzione, che dovrebbe collegare la Russia alla Germania. I principali leader europei hanno cercato di mediare (Draghi non ha neppure fatto in tempo) senza rendersi conto che Putin poneva questioni di sicurezza che potevano essere negoziate solo con gli Usa (e la Nato). Né Macron,Scholz,Draghi erano in condizione da fornire all’autocrate del Cremlino le garanzie che chiedeva: la non adesione dell’Ucraina alla Nato.

Ma Biden se ne è lavato le mani (ridicole le sanzioni annunciate), come se la crisi ucraina fosse un problema dell’Europa. Del resto, la fuga precipitosa dall’Afghanistan ha contribuito a rafforzare in Putin la convinzione di poter portare avanti la sua iniziativa neo-imperialista (non di dimentichi la riappropriazione di fatto della Bielorussia) sulla base di un ragionevole rischio, ma in assenza di conseguenze irreparabili. Tutto ciò premesso e senza nutrire simpatie per Vladimir Putin e per i ‘’putiniani’’ di casa nostra, penso che la comunità internazionale non tenga sufficientemente in considerazione la complessità degli interessi in gioco. Per capire (non vuol dire condividere) la posizione di Putin a me pare sufficiente osservare la carta geografica di quell’area che fu ‘’l’Impero del male’’ (l’Urss e i paesi satelliti). La Nato è un’organizzazione di difesa collettiva, ma dal 1999 al 2004, sono entrate a farne parte, come membri effettivi i seguenti paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria.

Adesso, l’adesione dell’Ucraina alla Nato è considerata dal Cremlino una minaccia diretta alla sicurezza della Russia (si direbbe la riedizione in grande della crisi di Cuba). Una spirale segnata nel 2014 dal rischio del ritorno ad una vera e propria guerra quando, dopo la rivoluzione di Maidan in Ucraina, Mosca ha illegalmente annesso la penisola di Crimea alla Federazione russa. Fu un’azione militare – come era avvenuto altre volte nella storia – che doveva consentire alla Russia l’accesso al Mediterraneo e quindi la possibilità di avere un ruolo di superpotenza sullo scacchiere cruciale del Medio-Oriente. Le disgregazioni degli Imperi, come degli Stati (vedi Yugoslavia), hanno sempre determinato, nella storia, conflitti e sciagure che dovrebbero indurre la comunità internazionale ad agire con molta cautela. Fu George Kennan, uno degli strateghi della politica estera americana, a scrivere nel 1997 che un allargamento a Est dell’Alleanza Atlantica, fino ai confini della Russia, si sarebbe trasformato nell’”errore più fatale della politica americana dopo la fine della Guerra Fredda’’.

E Gianni De Michelis, allora titolare degli Esteri, ammonì, tra le critiche, i paesi della Ue a non favorire la disintegrazione della Jugoslavia, prevedendo che conseguenze che ne sarebbero derivate. Quando crollano gli Stati in cui convivono differenti nazionalità le etnie che in precedenza appartenevano alla stessa comunità nonostante le differenze, si ritrovano in conflitto tra loro; non sono più cittadini di un unico grande paese, ma diventano maggioranze arroganti e minoranze mal tollerate, anche in conseguenza di precedenti tragiche vicissitudini (si pensi al caso delle minoranze russe nei Paesi Baltici che avevano, nell’Urss, un ruolo egemone rispetto ai nativi). Il fatto è che l’Occidente non ha vinto la guerra fredda; è stata l’Urss a perderla. Le conseguenze sono state non solo una grave crisi economica (nella transizione dal socialismo reale), ma anche l’implosione dell’Impero. E l’Occidente ne ha approfittato. Nel suo saggio In lode della guerra fredda. Una controstoria (Longanesi 2015) un testimone di quel tempo, Sergio Romano, ricorda l’impegno che George Bush assunse nel 1991 con Michail Gorbaciov quando lo persuase ad accettare che la Germania unificata facesse parte della Nato: l’alleanza non avrebbe esteso la sua presenza militare al di là della vecchia cortina di ferro.

Romano riporta nel libro una rievocazione di quell’incontro – che si svolse a Malta – dell’ambasciatore Usa a Mosca Jack Matlock; considerando i fatti descritti da un testimone presente come il diplomatico americano, l’autore trae le seguenti conclusioni: «Come tutte le intese che (come Yalta? ndr) non si traducono in un formale trattato, anche quella tra Bush e Gorbaciov, al momento dell’unificazione tedesca, può essere letta in diversi modi. Ma lo spirito dell’accordo era nelle parole pronunciate dal segretario di stato James Baker; la Russia rinuncerà alla sua egemonia sull’Europa orientale, gli Stati Uniti non ne approfitteranno per estendere la loro influenza politica sulla regione». Secondo Romano «quello spirito fu certamente tradito». Eppure il 28 maggio del 2002 i leader dei 19 Paesi allora aderenti alla Nato e il premier russo Vladimir Putin (sono trascorsi 20 anni, Putin era già al potere, vi è rimasto e vi resterà) sottoscrissero una dichiarazione, a Roma, il cui incipit prometteva l’avvio di una nuova era: «All’inizio del 21/mo secolo viviamo in un mondo nuovo, strettamente correlato come mai nel passato, dove minacce e sfide nuove e senza precedenti esigono risposte sempre più unite», tra le quali anche la lotta al terrorismo, la difesa comune e la collaborazione militare.

Fu una grande operazione di politica internazionale di cui il governo Berlusconi si attribuì gran parte del merito e che diede inizio alla leggenda dell’amicizia tra il Cavaliere e il nuovo zar. Quell’esperimento «del dopo Guerra Fredda, mai molto riuscito, per creare un clima di fiducia tra la Russia e la Nato», si è progressivamente logorato fino alla rottura dei rapporti diplomatici nell’ottobre scorso. A torto o a ragione per Putin si pone un problema di sicurezza. Bluffa oppure è convinto che degli Usa non ci si può più fidare da quando hanno eletto (e potrebbero rieleggere) un presidente come Donald Trump?