La sentenza
Consip esempio di malagiustizia, uno tsunami senza ragione: 7 anni dopo pagano gli investigatori di Woodcock
Una lunga e dolorosa custodia cautelare, sette anni di processo, una picconata giudiziaria al governo Renzi, un danno economico a un grande gruppo imprenditoriale, un costo enorme per la macchina giudiziaria: per tutto questo terremoto civile e politico non c’è a posteriori più una qualche ragione. La sentenza che chiude il caso Consip con l’assoluzione degli imputati e con la condanna dei carabinieri è la certificazione allo stesso modo di un clamoroso esempio di malainvestigazione e di malagiustizia. Che allo stesso modo censura chi quell’indagine avviò e promosse, e cioè il pm di Napoli Henry John Woodcock, chi condusse gli accertamenti di polizia giudiziaria e chi ereditò l’inchiesta, cioè la procura di Roma.
La sentenza anzitutto smentisce una metodologia di indagine che, attraverso un uso esplorativo delle intercettazioni, nei fatti si propone di mettere a nudo la democrazia e di ribaltarne gli equilibri. Il vero target di questo modo di fare giustizia non è l’ipotesi di reato, ma l’imprenditore e le sue relazioni con la politica. Il decorso di questi processi, fondati su migliaia di intercettazioni che transitano da un procedimento all’altro, è comune: dopo una fase acuta che deflagra sui giornali, si inabissano, cronicizzandosi nelle tortuosità del sistema giudiziario. Sono portatori di un vizio genetico: la loro prova è debole, quando non inesistente, perché costruita prevalentemente per un uso mediatico. Molti non sarebbero stati neanche istruiti, se il giudice per le indagini preliminari avesse svolto quella funzione di filtro che il sistema gli assegna. Non a caso a essere condannati non sono stati gli imputati, ma gli investigatori che, attraverso un uso suggestivo e manipolativo delle intercettazioni, hanno istruito un processo mediatico passato sulla democrazia come uno tsunami.
Ma la sentenza smentisce anche un certo modo di esercitare la giustizia. Perché la procura di Roma, subentrata a quella napoletana, aveva in prima istanza chiesto l’archiviazione degli imputati e la condanna degli investigatori, ricevendo per tutta risposta dal gip l’ordine di un’imputazione coatta per i primi. Anziché puntare a un rigoroso accertamento dei fatti, la procura capitolina si è piegata alla strategia accusatoria impostale ed è arrivata a sostenere in due gradi di giudizio un’accusa implausibile, fondata sulle parole di un testimone palesemente non credibile. L’effetto è stato quello di costruire dal nulla un fantasma che ha inquinato la vita pubblica, oltre a costare agli imputati un calvario doloroso.
Un dettaglio può spiegare quanto qui diciamo. Uno degli imputati assolti è Luca Lotti, la cui presenza nella notte dell’Hotel Champagne ha scatenato uno scandalo che, attraverso un’altra indagine giudiziaria altrettanto controversa, ha ribaltato la maggioranza di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm, aprendo una caccia alle streghe nella magistratura che non si è ancora conclusa. I cinque consiglieri dell’organo di autogoverno che, con Palamara, discutevano della nomina del nuovo procuratore di Roma furono puniti perché lo facevano con un politico imputato dalla stessa procura per fatti di inaudita gravità, appunto Luca Lotti. Oggi sappiamo che discutevano con un innocente. Non è un bel sapere.
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