Con tutto il rispetto dovuto, come si dice, tanto più doveroso in questi giorni di affanno e complicazioni che senza dubbio lo impegnano assai: ma il signor presidente della Repubblica non è libero da responsabilità nel clima di abbandono civile e di sofferenza istituzionale che assedia il Paese ormai da quasi un anno. In un sistema di democrazia abbozzata, infatti, si può ancora ammettere che le libertà fondamentali siano provvisoriamente maltrattate, e può capitare che nella propria gioventù un ordinamento debba ancora educarsi a rispettare se stesso. Ma non è la nostra condizione. Perché qui l’aberrazione del potere pubblico dalla rotaia costituzionale non rappresenta il caso della società acerba che incespica nei propri principi: rappresenta quello di una democrazia involuta nell’abitudine a vederli sacrificati.

La vita civile, economica e istituzionale del Paese è stata – e continua a essere – rimessa al regolamento pazzoide di un garbuglio comminatorio sottratto a qualsiasi effettivo controllo del potere rappresentativo, con la pratica dei provvedimenti personali del presidente del Consiglio, intervenienti su materie riservate, tardivamente corretta dalla tenue obbligazione di farne rassegna preventiva al Parlamento: una riserva di garanzia a sua volta messa nel nulla dal comportamento contrario del governo che si assolve perfino da quella sparuta occasione di confronto. Per non dire dell’ultimo espediente dei decreti legge inesposti a emenda parlamentare perché prescrivono cose superate di settimana in settimana, di modo che la prospettiva di conversione di quei provvedimenti è frustrata da una specie di aborto normativo che svuota il ventre di una politica esausta, capace solo di quei conati.

È l’ennesima puntata di una lunga vicenda di inaderenze costituzionali (chiamiamole sofficemente così), che ha avuto corso nella più impassibile assistenza del presidente della Repubblica. L’inerzia lungimirante dal Colle, risolta in miopia senza fuoco sui danneggiamenti pubblici che intanto deteriorano le ragioni stesse dell’affidamento dei cittadini; la certa buona fede con cui si legittimano le sbrigliate disinvolture di un’azione di governo che però ripaga quelle concessioni adoperandole come base di assestamento per proseguire nel solito andazzo; la spedizione in desuetudine del potere presidenziale di inviare messaggi alle Camere, sostituito dalla pratica conciliabolare della moral suasion: sono tutti segni esemplari della responsabilità suprema che passeggia incurante sotto i colonnati pericolanti della sua amministrazione.

Spiegare agli italiani che una limitazione dei loro diritti è ammissibile nel simultaneo chiarimento alle assemblee legislative che questo può tuttavia avvenire semmai con più attento, non con più blando o addirittura abdicato controllo parlamentare, significa adempiere al proprio ufficio di garanzia degli equilibri costituzionali esattamente nel momento in cui essi più valgono: e cioè quando sono messi alla prova. Al contrario, interloquire paternalisticamente coi cittadini liquidando il dossier degli sbreghi istituzionali nella presunta inevitabilità delle cose “necessarie” è profondamente sbagliato e terribilmente diseducativo, perché insegna a disprezzare il primo diritto che il cittadino dovrebbe piuttosto rivendicare: e cioè che lo Stato rispetti innanzitutto la propria legalità.

Non si difendono le istituzioni repubblicane lasciando che, “a fin di bene”, esse diventino la materia passiva degli esperimenti di scorciatoia emergenziale. Non si protegge la fibra democratica del Paese lasciando che esso faccia l’abitudine all’istanza autoritaria che vi si incista. Perché queste cose rimangono, e nel rimarginarsi dell’altra infezione si stabilizzano in una patologia per cui non esistono vaccini.

Non è tardi perché il presidente della Repubblica ci aiuti a onorare il suo ruolo, lui riconoscendo di poterlo adempiere meglio. Saremmo tutti più forti se lui avesse la forza di ammettere che la sua debolezza ha sguarnito lo Stato di diritto, una cosa che non si ripara coi rimpasti.