«Può non stare simpatico, certe volte esagera nei toni e nel voler essere al centro della scena, ma sui contenuti, che in politica dovrebbero interessare e contare di più, Matteo Renzi ha ragione. Ha ragione, ad esempio, quando mette l’accento sui ritardi del Governo sul Recovery Fund». A sostenerlo, in questa intervista concessa a Il Riformista, è Bill Emmott, giornalista e scrittore britannico, che l’Italia l’ha conosciuta e raccontata molto da vicino. Emmott è stato direttore dell’Economist dal 1993 al 2006 portando il giornale a più che raddoppiare la distribuzione rispetto al periodo precedente. Autore di diversi libri, in edizione italiana sono usciti Asia contro Asia (2008); Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi (2010); Il destino dell’Occidente. Come salvare la migliore idea della storia (2017) Con Annalisa Piras ha scritto il documentario sull’Italia Girlfriend in a Coma (2013) e prodotto The Great European Disaster Movie (2015), in cui prefigura il rischio del collasso dell’Unione europea.
Ha creato e presiede la Wake Up Foundation, volta a promuovere la diffusione di film e testi per sensibilizzare al declino della società occidentale e stimolare riforme che aiutino a scongiurarlo. Quanto alla figura del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, Emmott la pensa così: «A me sembra che il professor Conte abbia perso molto di quell’appeal che aveva un anno fa, all’inizio della pandemia. L’immagine rassicurante, il suo non essere percepito come un politico di professione, ha fatto presa nell’opinione pubblica italiana. Ma oggi, di fronte ai grandi problemi sociali ed economici che investono l’Italia, ingigantiti dalla pandemia, vedrei meglio, e non credo che tra gli osservatori esterni sia il solo a pensarla così, alla guida di un nuovo Governo una personalità più solida e soprattutto più preparata in economia. Non c’è solo “san” Mario Draghi, ma anche altre personalità di spessore come, solo per citarne una, Enrico Giovannini».
Vista dall’esterno, ma da una persona come lei che conosce molto bene l’Italia, che idea si ha della crisi di Governo in atto?
Per me questa crisi conferma un fatto chiaro dopo due anni dalla formazione del governo Conte II sorretto da una maggioranza giallo-rossa. Si tratta di una maggioranza fragile, e divisa al suo interno. Questa era una situazione normale per il centrosinistra negli anni della cosiddetta prima Repubblica, con i piccoli partiti che rivendicavano poltrone ministeriali e visibilità. Oggi, però, questa “normalità” deve fare i conti con l’enormità della crisi pandemica, di fronte alla quale le vecchie furbizie della politica politicante, il tirare a campare in attesa di tempi migliori, mostrano la loro assoluta inadeguatezza. Una inadeguatezza che si manifesta soprattutto su una questione cruciale come è quella del Recovery Fund. Dall’esterno, si avvertono le preoccupazioni degli imprenditori, della Confindustria, così come il grido d’allarme lanciato dalle organizzazioni sindacali e di categorie sulla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. L’anno scorso, all’inizio della pandemia, fu messa in campo una task force guidata da Vittorio Colao. Quella fu, a mio modo d vedere, una idea molto buona, professionale verrebbe da dire, solo che dopo l’archiviazione di quella task force, il Governo giallo-rosso sembra aver smarrito una prospettiva chiara sul programma. Le critiche di Matteo Renzi non sono sbagliate, e non possono essere liquidate come strumentali a ben altri disegni e ambizioni che lui coltiverebbe. Sul Recovery Fund così come sul Mes sanitario le sue critiche mi sembrano fondate. Non basta dire: dall’Europa ci arrivano 200 miliardi, incassiamoli e poi pensiamo a come spenderli. Perché le cose non stanno così. Agli italiani non mancano l’immaginazione e la creatività, di cui giustamente vanno fieri. Ma in politica, soprattutto in momenti bui come quello che stiamo attraversando, l’immaginazione fa presto a scivolare nell’arte dell’arrangiarsi, e la creatività in furbizia di basso profilo. Oggi c’è un gran bisogno di senso di responsabilità, di visione, di capacità e di esperienza. Altrimenti quella del Recovery Fund si rivelerà una irripetibile occasione persa. Un treno che non passerà probabilmente più. Si sente ripetere in ogni dove che dopo questa pandemia nulla sarà più come prima. E’ vero. È così. Ma quel “nulla” può trasformarsi, e in parte ciò sta già avvenendo, in “peggio” senza l’esercizio di una forte capacità di governo, a livello nazionale ed europeo. Senza questa capacità politica, le disuguaglianze sociali si trasformeranno in una faglia non più ricomponibile. Ma se ciò dovesse accadere, a rischio sarà la democrazia stessa.
Che idea si è fatto di Giuseppe Conte? All’inizio si era molto ironizzato sul suo autoproclamarsi “avvocato del popolo”, mentre oggi sembra essere diventato, almeno per tre delle quattro forze che hanno supportato il suo secondo mandato a Palazzo Chigi, un imprescindibile e insostituibile “punto di equilibrio”. Insomma, chi è davvero Giuseppe Conte?
Non so esattamente. L’anno scorso, all’inizio della pandemia, Giuseppe Conte era visto come un uomo “non politico”, nel senso che non era identificato come un membro della tanto vituperata “casta”. Una persona che poteva parlare direttamente al popolo italiano senza una carica ideologica o caratteristiche simili, proprie dei “politici” di professione. Ma quelle che un anno fa potevano apparire come virtù, oggi sembrano invece essere diventati dei limiti, molto profondi. Il professor Conte non è un politico “professionale”, non è una personalità forte, e non è un’economista, una persona che ha il background necessario per affrontare i gravi problemi dell’economia italiana. In questa situazione, con una maggioranza divisa, frastagliata, Conte mi sembra più debole per poter assolvere il ruolo di premier nel futuro. Se l’anno scorso poteva sembrare una figura rassicurante, oggi il professor Conte mi preoccupa un po’. Come altri osservatori stranieri, preferirei a Palazzo Chigi un economista…
Mario Draghi?
“San” Draghi è il primo nome che naturalmente viene da fare. Ma non è il solo. Ci sono anche altre personalità di valore, come Enrico Giovannini, Enrico Letta e altre persone con più esperienza e competenza sull’economia.
Come valuta l’atteggiamento che sta avendo in questa crisi il Partito democratico?
Il Pd è un partito con una buona organizzazione di base ma senza un leader e una direzione centrale al top. Zingaretti è una persona di grande integrità ma non è un leader come Prodi, come Enrico Letta, come lo stesso Renzi. Anche i 5 Stelle non hanno un leader, ma per quanto li riguarda, questa non è sorpresa. Ma per il Partito democratico è una sorpresa e un peccato. La situazione attuale è il prodotto di divisioni del passato, come quella tra Renzi e Letta, ad esempio, tra Renzi e Calenda. Ecco, Calenda poteva essere un nuovo leader, ma il Pd non si è mostrato unito nell’accettarlo.
Se in Italia le forze progressiste e di sinistra non se la passano bene, non è che nella sua Gran Bretagna come nel resto d’Europa sprizzino chissà quale vitalità. Perché il pensiero progressista e chi lo dovrebbe rappresentare sono così in difficoltà?
È una buona domanda. Una domanda dalle mille pistole. È qualcosa di misterioso, per me. Certo che continuano a pesare le divisioni a sinistra tra quelli che vorrebbero un approccio più socialista, con uno Stato centralizzato interventista nell’economia, e quanti hanno dei dubbi, o sono critici, sul fatto che lo Stato debba e possa intervenire nel mercato. Detto questo, resta comunque il mistero…
Anche perché non è che la destra europea, soprattutto quella sovranista, soprattutto adesso che è orfana di Donald Trump presidente, abbia chissà quale visione o ricetta taumaturgica sul futuro…
Direi proprio di no. Le idee di cui questa destra sovranista si è fatta portatrice, e continua a farlo anche in piena crisi pandemica, sono improntate a un nazional-sovranismo che coglie certamente un forte malessere sociale, soprattutto nei ceti più deboli, un malessere che la crisi pandemica ha moltiplicato per mille. Ma le risposte che questa destra offre non sono assolutamente adeguate per affrontare una crisi di queste dimensioni. Non è che a destra volino delle aquile.
Sulla sostanza abbiamo detto. Ma oggi in politica l’immagine ha un valore assoluto. Lo ha in una fase storica in cui la realtà è la percezione. Che immagine sta dando la classe politica italiana nel suo insieme?
La risposta non può essere semplicistica. Direi anzitutto che andrebbe fatta una distinzione, che non è semantica ma sostanziale, tra classe dirigente e classe politica. Non sempre si identificano. È ciò che sta avvenendo oggi, e non solo in Italia. C’è una classe dirigente diffusa, nell’imprenditoria, nelle professioni, nella ricerca, che oggi appare molto separata dal Governo, dal Parlamento, dalle istituzioni politiche. C’è indubbiamente una crisi di rappresentatività, un deficit di autorevolezza, prim’ancora che di autorità, dell’attuale classe politica. La dico così: l’Italia ha principalmente bisogno di riformarsi se vuole svegliarsi dal “coma”, consentendo più innovazione e creatività ai suoi cittadini. Al tempo stesso, però, i cittadini devono sentirsi essi stessi “classe dirigente” e non delegare ai “politici” la soluzione di tutti i problemi. C’è bisogno di un’assunzione di responsabilità. Non si può sempre giocare di rimessa. Occorre imparare a “sopravvivere” anche in tempi di governi deboli. Come accade in India. Un mio caro amico ha scritto un libro molto interessante e con un bel titolo. Che tradotto in italiano suonerebbe pressappoco così: L’economia indiana cresce nella notte, quando il Governo dorme. Ecco, anche in Italia dovrebbe essere un po’ così, e in parte lo è già stato in passato.