Oltre due anni di «spiate», quasi 7mila accessi. Continue sbirciate sui conti correnti dal 21 febbraio 2022 al 24 aprile 2024. Dati ipersensibili. Nel mirino militari, sportivi, imprenditori, vip. E soprattutto politici, anche di primissimo piano. Giorgia Meloni, la sorella Arianna, l’ex compagno Andrea Giambruno, i ministri Crosetto, Santanchè e Fitto, il presidente del Senato Ignazio La Russa, i governatori Zaia ed Emiliano. La lista è lunga. Non vengono risparmiate neanche le colonne portanti delle istituzioni: il procuratore nazionale antimafia Melillo, ufficiali dell’Arma e della Guardia di Finanza. La Procura di Bari lavora a un’inchiesta su un ex dipendente di Intesa Sanpaolo, licenziato ad agosto, che rischia grosso se ha davvero violato le norme sulla privacy e la segretezza di informazioni delicatissime. La vicenda sollevata dal quotidiano Domani è agghiacciante. Non a caso il giurista Francesco Fimmanò, professore ordinario di Diritto commerciale e presidente di Avia (Associazione vittime ingiustizie e abusi), parla di «una vera e propria emergenza democratica». Non si tratta di casi isolati: la deriva inquietante può portare all’«eversione».

Il ministro Crosetto era a conoscenza delle «spiate» sul suo conto corrente, secondo lei?

«Ritengo Crosetto una persona serissima e con un importante sistema valoriale. E si badi bene: se si guarda alla sua storia, si vede che è stato particolarmente attento ai valori dello Stato liberale di diritto da decenni, per i quali ha lottato pubblicamente, ben prima di essere ministro e oggetto di interessi “morbosi e patologici”. Escludo che abbia mai avuto una “conoscenza privilegiata” dei fatti, anche perché ha sempre denunciato come cittadino quando ha saputo. Anzi, ha pensato che occorra sempre rivolgersi ai giudici. E ha fatto bene ad avere fiducia nel sistema: per la prima volta la magistratura ha aperto il vaso di Pandora sulle pericolose degenerazioni dei rapporti tra qualche magistrato, qualche rappresentante di forze dell’ordine e qualche giornalista».

Si parla di migliaia di accessi durati oltre due anni. Non proprio compatibili con una semplice curiosità personale del bancario…

«Da giurista maestro che ha centinaia di allievi giuristi (magistrati, professori, notai, prefetti) sono seriamente preoccupato da questo “andazzo”. Comincio a pensare che il fenomeno rappresenti complessivamente una vera e propria emergenza democratica e non casi isolati, cui bisogna prestare un’attenzione complessiva come per la mafia o il terrorismo».

La vicenda è addirittura più grave dello scandalo dossieraggio su cui indaga la Procura di Perugia?

«No, quello mi pare assai peggio: un caso rappresentativo del pericolo vero, ai limiti dell’eversione e non esagero. Quello è il paradigma del peggio: abusi gravissimi di rappresentanti dello Stato e di alti magistrati, con connessioni con quella parte peggiore della stampa che dietro il diritto di cronaca nasconde la volontà di destabilizzare. Ecco perché parlo di eversione. Siamo abituati a un immaginario collettivo in cui si sottovaluta il disvalore e il pericolo degli abusi. Anche in sede disciplinare ad esempio vengono puniti i magistrati per reati comuni, e ci mancherebbe altro, senza capire che un rappresentante dello Stato che abusa è ben più pericoloso per la democrazia di uno che ruba. Nulla giustifica gli abusi in uno stato democratico, nulla».

Secondo lei, quindi, quell’inchiesta avrà sviluppi anche se riguarda pezzi della magistratura?

«Sicuramente e più di quanto si possa immaginare. Il procuratore Cantone è un investigatore formidabile, un giurista preparatissimo e rispettoso delle sue prerogative. Anzi, mi spiace che il direttore Mieli – altro uomo di primissimo ordine e che stimo profondamente – abbia avuto quella infelice espressione della “bolla di sapone”. Ma in verità – essendo un suo lettore accanito – non vorrei che l’abbia fatto, proprio in quanto consapevole della gravità della fattispecie, per caricare la vicenda della giusta attenzione che merita. Ma il procuratore di Perugia da questo punto di vista è una garanzia, come dimostra la sua storia personale».

Giorgia Meloni, la sorella Arianna, l’ex compagno Giambruno, i ministri Crosetto, Santanchè e Fitto, il governatore Zaia. Il comune denominatore salta subito all’occhio: in larga parte ci si concentra su esponenti del centrodestra. È un puro caso?

«Non credo, ora ci si concentra su di loro perché i potenti sono oggetto di attenzioni, fisiologiche e patologiche. Basti pensare all’attenzione verso Renzi quando era nel pieno del potere come rappresentante della sinistra, anche se poi è continuata in modo morboso e patologico. Il tema è che i media hanno un ruolo di controllo del potere, ma attenzione a legittimare attraverso questo ruolo l’esercizio abusivo di un “contropotere” che può diventare eversivo. Quindi bisogna distinguere l’attenzione fisiologica da quella patologica, ossia di quella parte della stampa che sta contro qualcuno a prescindere per eliminarlo. Ci sono casi evidenti e l’inchiesta di Perugia li farà venire a galla».

Nel mirino sarebbero finiti anche il procuratore nazionale antimafia Melillo, ufficiali dell’Arma e della Guardia di Finanza. Perché proprio le colonne portanti delle istituzioni?

«Ma è ovvio che una fenomenologia del genere può riguardare tutti. E non si sottovaluti ciò che è sotto la punta dell’iceberg. Il potere del ricatto è ben più pericoloso di un’informazione pubblicata. Attenzione: quando parlo di eversione parlo soprattutto di ciò che non esce e che può condizionare magistrati, ufficiali, uomini delle istituzioni e che quasi sempre ha all’origine abusi, altrimenti non sarebbe un’informazione ignota alla generalità».

L’inquietante vicenda apre una falla nei controlli di sicurezza, ma non solo: la democrazia è sotto attacco.

«Sì, è sotto attacco, ma non per le falle nella sicurezza. Quelle sono inevitabili. Ma per l’incapacità di reagire con fermezza come è stato decisivo nella nostra storia per altri fenomeni. A leggere di queste vicende tutti si ammantano di essere paladini del diritto di cronaca. E mi perdoni: a cominciare dai giornali, ai quali non convengono inchieste serie sulle relazioni pericolose. Si parla da 30 anni di illecite fughe di notizie o di violazioni del segreto istruttorio e poi rimane una chiacchiera da bar».

Le norme sulla privacy e la segretezza di dati ipersensibili in Italia sembrano facilmente penetrabili. È una falsa percezione o una sconcertante realtà?

«Nulla è impenetrabile. Il problema è che gli abusi rimangono impuniti, e non parlo sul piano penale: ne parlo proprio sul piano sociale del disvalore, dello screditamento, della carriera, delle sanzioni disciplinari. Le parti forti che abusano fanno passare il messaggio che sono solo delle “monellate”…».

Eppure si fatica a comprendere che la riservatezza delle informazioni personali è uno dei fondamenti della democrazia…

«Ma infatti i default della democrazia vengono sempre da fenomeni sottovalutati. Si mettano gli abusi nel centro del mirino. Si caccino magistrati, funzionari, impiegati, giornalisti che abusano e poi se ciò configura un reato o meno si vedrà».

E c’è chi dirà che in fondo c’è ben poco di vergognoso: dopotutto, che problema c’è se si sbirciano politici e vip dal buco della serratura?

«Esattamente, è proprio così fino a quando non ci riguarda individualmente. Perciò sono stato onorato di essere divenuto presidente di un’Associazione di tutela delle vittime degli abusi e delle ingiustizie. Perché è la consapevolezza civile a fare la differenza. Insomma, deve diventare più grave abusare che rubare nella cultura democratica collettiva».

Al di là del singolo caso, ci sono gli elementi per parlare di assedio metodico alla riservatezza?

«Il tema è figlio dei tempi ed era inevitabile con la digitalizzazione dell’umanità. Il problema è il contrasto, non il fenomeno. Pure fumare era “figo” negli anni ’50 e oggi è vietato. Siamo indietro sul piano del disvalore e appunto del conseguente contrasto».

Il dossieraggio è parente stretto dell’abuso di intercettazioni e trojan?

«Quando queste sono oggetto di abusi sono la stessa cosa. Anzi peggio, visto che nell’immaginario collettivo e mediatico potrebbero essere finalizzate al bene. Ma nessuno di noi si può fare fautore di un ipotetico bene dell’umanità. Dobbiamo solo rispettare la legge. Parliamo, in questi casi, di tali invasioni di libertà e tali contrazioni dei diritti fondamentali che – se non assistite dalle doverose e inderogabili garanzie – rappresentano un colpo al cuore della civiltà».

L’equilibrio tra libertà e controllo è ancora un’utopia?

«Uno scrittore argentino che mi è caro, come tutto in quel paese violentato forse come nessuno altro da abusi, ha affermato: “Solo chi è capace di incarnare l’utopia sarà pronto per il combattimento decisivo, quello per recuperare la parte di umanità che abbiamo perduto”».