Giorgia Meloni continua a dire che “l’economia nazionale va bene” e che “il merito è delle imprese, perché la ricchezza non la crea lo Stato. Noi non paghiamo le persone per non lavorare ma incentiviamo le assunzioni e le persone sono più spronate a lavorare”. Continua anche, la premier – lo ha fatto ieri sera a Porta a porta – a dire che “sul Servizio sanitario nazionale il governo ha messo undici miliardi in più” e che i disservizi denunciati sono “il risultato di chi c’era prima”. Questo governo è “stabile” e questo “porta ricchezza”. La premier comincia però anche a mettere le mani avanti: “Io vorrei mantenere anche nel 2025 il taglio del cuneo fiscale ma con la zavorra di 200 miliardi di bonus edilizi, che costano 135 euro a persona neonati compresi, non sarà facile”.

Dalle riunioni al Mef infatti emerge un quadro di finanza pubblica affatto roseo. Il ministro Giorgetti mercoledì in audizione ha giustificato “un po’ di suspence”. Almeno fino al 9 aprile, quando il Consiglio dei ministri approverà il Documento di economia e finanza. Ma chi era presente nella sala del Mappamondo ha descritto un ministro “preoccupato”, persino “imbarazzato” dal quadro di finanza pubblica che il governo dovrà gestire nelle prossime settimane e mesi. Quando le narrazioni propagandistiche andranno a fare i conti con le casse vuote per cui il governo dovrà tagliare le spese oppure aumentare le tasse.

Giusto per dare qualche coordinata: il debito pubblico sfonderà a giugno quota 2900 miliardi; se il Pil 2023 è arrivato allo 0,9% (lo 0,1 in più rispetto alle previsioni) sappiamo che il rapporto deficitPil si è attestato al 7,2% mentre le previsioni in ottobre (Nadef) lo avevano fissato al 5,3% del Pil. In termini assoluti sono tanti miliardi in meno. La buona notizia arriva dal debito pubblico: nel 2023 è sceso al 137,3% del Pil dal 140,5% del 2022. Adesso sta risalendo grazie anche alle vendite dei titoli di stato: siamo affidabili e però sempre debito facciamo. Sul Def che verrà il ministro Giorgetti se l’è cavata dicendo che “sarà un Documento leggero e con numeri interessanti”. Vedremo martedì i numeri. Indiscrezioni fissano il Pil a +1 (gli organismi europei avevano detto lo 0,5%, ci sono almeno dieci miliardi di differenza) e il deficit che si fermerà al 4,5%. Sono numeri confortanti. Che si portano dietro però una lunga lista di non-detti il cui risultato sembra già scritto: una manovra correttiva subito dopo le Europee oppure qualche sorpresa (tagli o nuove tasse) in autunno quando il governo dovrà trovare come minimo 35 miliardi (solo per mantenere le misure di quest’anno su Irpef, famiglie e taglio del cuneo) per scrivere la prossima legge di bilancio e relativa manovra.

I non-detti, dunque. Il primo e più importante ha a che fare con le nuove regole del Patto di stabilità: Giorgetti ha spiegato le difficoltà legate alle nuove regole non ancora del tutto definite. Ha dimenticato però di specificare che la loro “definizione” si traduce in una differenza di miliardi. Lo scenario è ben rappresentato nella relazione scritta e può essere così sintetizzato: i paesi con molto debito, più di tutti l’Italia, dovranno rientrare in quattro o in sette anni? La differenza sono, appunto, miliardi. Non è chiaro neppure se questa regola sarà definita dalla Commissione uscente – ma in carica fino a dicembre 2024 – o da quella entrante. Questa incertezza potrebbe darci un anno di tempo in più. Dal 2025 comunque non ci saranno più alibi.

Le nuove regole del Patto di stabilità, sottoscritte a fine dicembre 2023, prevedono anche un cambio del modello amministrativo. Prevedono cioè che tutti i centri di spesa dello Stato, e quindi anche Regioni e comuni oltre a quelli centrali, siano in grado di fornire a fine la lista aggiornata e corretta di entrate ed uscite. Un nuovo sistema di rendicontazione fiscale per cui servono importanti modifiche e riforme alla nostra macchina amministrativa e pubblica. Saremo in grado? Pare che Francia e Germania siano già in grado di farlo. “Quando parlava di questo – racconta Beatrice Lorenzin (Pd) – il ministro Giorgetti ha fatto notare che il ministro Calderoli si aggirava per la sala del Mappamondo. Sarebbe stato interessante se e come la legge sull’Autonomia differenziata ha fatto i conti con queste modifiche che sono strutturali e non una tantum”. Giorgetti ha ripetuto più volte di “confidare nella ragionevolezza della vecchia e della nuova Commissione”. La nostra finanza pubblica è appesa a come saranno interpretate e applicate le nuove regole.

Il governo reagisce come può: rinvia le decisioni e fa un po’ il gioco delle tre carte. Il Superbonus edilizio 110%: ieri ha chiuso finalmente il contatore 2023 ed è stata raggiunta la cifra di 150 miliardi di costo per lo Stato in tre anni di 110%. Cifre mostruose che non è stato neppure possibile preventivare (da qui la proposta di Giorgetti “stop al credito d’imposta”) perché le regole non lo consentivano. Si cerca, per questo, di scaricare tutto sul capo della Ragioneria Biagio Mazzotta, sui tecnici. Ma sono stati i politici, da quando Draghi e Franco dettero l’allarme (“misura criminogena e fuori controllo”) che non hanno saputo fermare la droga del Superbonus. A giugno Eurostat dirà al Mef se contabilizzare i crediti tutti nell’anno di sostentamento della spesa (come è stato fatto nel 2023) o se sarà possibile spalmarli su più anni. Anche in questo caso balla una differenza di diversi miliardi per il quadro di finanza pubblica. I non-detti corrispondono ad altrettante incognite.

La sensazione è che col passare del tempo il sistema si ribelli e imploda dall’interno. Le Regioni, ad esempio, non ci stanno a farsi tagliare fondi come invece previsto dal nuovo Pnrr del ministro Fitto. Dicono no al taglio di 1,2 miliardi sulla realizzazione del programma “Verso un ospedale sicuro e sostenibile” finanziato dal Piano Nazionale Complementare (parallelo al Pnrr, con le stesse regole ma con fondi nazionali). Le Regioni sono pronte a rivolgersi alla Corte Costituzionale: “Useremo tutti i canali della collaborazione e anche quelli di non collaborazione, se necessario, per tutelare il più possibile il servizio sanitario nazionale”, ha detto il presidente della Conferenza delle regioni Massimiliano Fedriga. Che è della Lega. E non si chiama De Luca.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.