Per preparare il suo discorso della scorsa notte, la candidata democratica Kamala Harris ha fatto prove su prove e ancora altre prove portandosi dietro il teleprompter (lo schermo su cui si legge il testo), da sola o con i suoi assistenti, dimenticando, ricordando, cambiando intonazione e facendo di tutto per contenere la sua natura che la spinge a scoppi di risa non sempre appropriati.
Ce l’ha fatta. Bene. Ma non ha vinto. Non ancora. Non ha ancora vinto le elezioni perché il serpentello bifido dei grafici delle intenzioni di voto seguita a preferire per pochissimo poco Trump, e poi perché non sa che cosa dire.

L’evento costituzionale hollywoodiano

Non è colpa sua. Nessuno dei Dem (dall’altra parte c’è il solitario mostro arancione Donald) ha realmente la più pallida idea di che cosa proporre a una nazione che dà segni di disunione armata. Così in passato è stato per Clinton, per Obama e Joe Biden, per limitarci agli ultimi decenni: il Gotha dem per il quale l’Europa di sinistra e specialmente l’Italia si spella le mani come se a Chicago si giocassero finalmente le vere Olimpiadi.
A Chicago e in tutta l’America una Convention – sia democratica che repubblicana, – è un fastoso evento, un evento nazionale costituzionale hollywoodiano ideologico sentimentale in cui si deve piangere, ridere, imprecare, pregare, portare la mano sul cuore, sulla spalla del figlio e scandire e applaudire e cantare e commuoversi mandando al diavolo compostezza e dignità, perché il primo messaggio che Kamala Harris ha inviato da Chicago alla nazione e al mondo è stato un messaggio patriottico: noi e solo noi siamo l’America, in un crogiolo di razze colori amori rancori speranze ma sempre più vittorie che sconfitte. Anche Tim Walz, l’aspirante vice di Kamala, ha pronunciato un discorso rustico e aggressivo perché doveva rappresentare quella parte dell’America che, come razza e classe sociale, oggi sta per Trump e che i Dem devono riconquistare. Altrimenti la partita è persa.

E Walz, ex coach di Football ed ex teacher di liceo, ha proposto una concione urlata piena zeppa di glossario e metafore calcistiche e didattiche. Così è l’America. E questo lo sa Barack Obama, dall’eloquio sincopato e letterario, Bill Clinton, il vero Cicerone americano, Hillary, che porta sempre i segni di antichi rancori e sconfitte. Di Biden trasformato in un arcangelo azzurrino che non ha sbagliato una sola parola, abbiamo già detto. Kamala si è fatta confezionare il suo discorso da Adam Frankel, che prima scriveva i discorsi di Obama e adesso è il suo angelo custode. È stato come costruire un albero di Natale di venti metri facendolo apparire leggero come una foglia, ma l’hotel Park Hyatt di Chicago e la Howard University di Washington e Arizona hanno udito decine di volte Kamala impennarsi, inabissarsi e impegnarsi al punto da far preoccupare l’adviser Cedric Richmond, racconta il New York Times, perché ha visto il rischio dell’overdose, la sopravvalutazione dell’importanza del momento.

Il discorso annunciato di Kamala

Ma Kamala è fatta così: quattro anni nel buio più assoluto e misterioso e in un mese ha dovuto riprodursi come un clone in una figura spettacolare e – malgrado il poco tempo – a suo modo leggendaria. Scriviamo prima che la Harris abbia pronunciato il discorso per questioni ovvie di fuso orario, ma la traccia è questa. Primo, la storia della sua vita di tenace donna di colore della middle class che capisce i problemi dalla middle class di oggi, contesa con Trump, specialmente quella bianca, così depressa da sentirsi minoranza nelle valli e sui monti. Un discorso sulla sua condizione prima di essere la vice di Biden, la storia di una donna procuratore che diventa il ministro della Giustizia della California. Secondo argomento, la razza, nel senso di “futuro contro il passato”, per rispondere ai cupi e minacciosi discorsi di Donald Trump. Non tutti giustificati perché sono stati presi dal documento repubblicano “Project 2025” che Trump ha rinnegato perché troppo conservatore.

Al terzo posto – ostico da comprendere per noi europei – il patriottismo. Anzi Patriottismo maiuscolo, definito “muscular” cioè gagliardo, e allo stesso tempo progressista. Per quel che ho capito e visto nella mia vita americana, il patriottismo è il materiale più popolare, comune degli americani, sia plebeo che aristocratico, che con la bandiera a stelle e strisce ci fanno sia le tovaglie che gli stracci da spolvero per non dire coperte e teli da spiaggia, oltre ad averla sempre appesa fuori della finestra. Kamala ha dovuto quasi farsi perdonare per essere mezza indiana e mezza giamaicana dichiarando di essere figlia soltanto di Oakland, California, e poi delle pianure del Nebraska. Un tale perentorio dovere di appartenenza non è comune nelle altre ex colonie inglesi come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. Chi si fa americano deve sapere che discende da una guerra anticoloniale e da una guerra civile e che i primi cittadini da onorare sono i veterani di tutte le guerre.

Riferendosi al suo running mate Tim Walz ha detto: “Siamo due figli della classe media”. Negli Stati Uniti esiste un insulto peggiore di antiamericano ed è un “non-americano”, unamerican. E lei che ha le radici altrove ha giurato di essere americana fino al midollo. Lo ha già ripetuto con impeto e a tutto volume: “Only in America”. E allora il popolo della Convention Dem di Chicago, Illinois, scatta in piedi e scandisce per decine di volte U.S.A.! U.S.A! Quello del patriottismo collettivo, senza complessi e portato con fierezza anche dall’ultimo emigrante niella cerimonia della cittadinanza americana, è il solo e potente collante che tiene insieme una nazione di 350 milioni di esseri umani totalmente diversi fra loro tranne che nell’identità. Questo è il solo magnetismo che funzioni per tenere insieme una società percorsa da rancori, proteste e rivendicazioni attuali e ancestrali. Kamala ha promesso di essere il giusto leader per una nazione che se non si riconosce in sé stessa rischia di perdersi. Cosa che, più o meno, dice anche il candidato Donald Trump.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.