Un bilancio della conferenza sul clima
Cop26, lo scontro del futuro tra ecologisti integrali e di governo
Il conflitto aperto dai movimenti di strada, ultime le manifestazioni contro i potenti del Cop26 e i governi, sulle grandi questioni che investono il futuro dell’umanità e del pianeta, consentono di guardare a una frattura che divide profondamente il campo dei sostenitori delle politiche ecologiste. Mi pare che si possa dire addirittura che si affacciano due concezioni tra loro irrimediabilmente in contrasto e in opposizione. È lo scontro che si profila tra quello che possiamo chiamare “l’ecologismo integrale”, secondo una definizione carica di autorevolezza, e l’ecologia dei governi e delle istituzioni. Bisogna tenersi lontano da una similitudine che può affacciarsi con la storica divisione del Novecento del Movimento operaio tra riformisti e rivoluzionari, ma la linea di frattura va acquisita perché destinata a segnare una delle tendenze del conflitto nel prossimo futuro. Neppure la dialettica sempre esistita in Germania nei Grünen tra i fondamentalisti e politici ci illumina su questa divisione profonda, complessa e articolata che, tuttavia le immagini dei governi chiusi nei palazzi e, all’opposto, quella delle moltitudini di giovani che invadono le strade, in qualche modo, simboleggiano.
A dividerli, anche se ancora non è evidente, sono due macigni sulla via della conversione ideologica: l’uno si chiama addirittura capitalismo; l’altro ha la forma storica di non-governo del mondo da parte degli Stati nazionali e delle grandi aree economiche in cui oggi è suddiviso. Greta Thunberg ha denunciato il fallimento dei vertici mondiali ricorrendo a una formula irridente e spregiativa: il famoso bla bla bla. Leonardo Boff ne ha individuato la causa principale quando ha scritto: «I leader mondiali hanno accuratamente evitato di toccare quello che è il vero problema: il capitalismo. Se non cambia nel modello di produzione e di consumo, non fermeremo mai il riscaldamento globale». So che non è ancora la tesi del Movimento ma è ciò che impedisce ai potenti di accoglierne le richieste. Ricchezza e povertà segnano di sé anche l’ambiente. Uno studio recente lo rende manifesto in termine esplosivo. Oxfam, proprio in occasione di Cop26, ha presentato uno studio effettuato con L’Institute for European Environmental Policy e lo Stockholm Environment Institute. Si sa che i voli spaziali sono ormai la misura delle più grandi ricchezze, ebbene, secondo questo studio, un solo volo spaziale inquina quanto il miliardo di persone più povere del mondo. Misurate in tonnellate di Co2 emesse, in poco più di 10 minuti, il volo ne produce 75 tonnellate. Tutte le persone del miliardo più povero impiegherebbero più di 75 anni a produrle, giacché emettono meno di 1 tonnellata di co2 all’anno.
I grandi della terra si affannano a discutere su come mantenere il riscaldamento globale sotto l’1,5% senza riuscirci, ma si calcola che l’1% più ricco del mondo è incamminato a essere per il 2030, data fissata per il raggiungimento dell’1.5%, trenta volte sopra a quel che sarebbe compatibile con l’obiettivo che, per essere realizzato, dovrebbe vedere questo 1% più ricco ridurre le proprie emissioni dell’oltre il 95%. Il commento di uno dei responsabili dello studio porta acqua al mulino della tesi di Boff. «Le emissioni del 10% più ricco da sole potrebbero spingerci a un punto di non ritorno e a pagarne il prezzo più alto, ancora una volta, saranno le persone più povere e vulnerabili del pianeta». Ricordiamo sempre l’implacabile formula secondo la quale senza giustizia sociale, l’ecologia è solo giardinaggio. Per i potenti, è il maquillage compatibile con questo tipo di accumulazione capitalistica e il suo cammino è quello del peccatore: buoni propositi, poi molti peccati, poi qualche pentimento e infine ripresa del cammino senza cambiamento. In questa prigione costruita con le proprie mani si sono trovati i vertici del G20 e del Cop26. Solo una acritica propensione apologetica e forzosamente ottimistica ne può negare l’esito deludente, per il destino dell’umanità, per il futuro del mondo e anche soltanto per le prossime politiche attese.
A denunciarne l’esito deludente non è solo il movimento, non sono solo le manifestazioni di una nuova generazione di giovani. Ci sono le pesanti critiche di studiosi della forza del premio Nobel Giorgio Parisi e ci sono tante altre autorevoli testimonianze. A minare le già incerte previsioni dei grandi della terra e i loro impegni di buona condotta non ci sono solo le fondamentali questioni strutturali, cioè il completo funzionamento di questa economia, di questo capitalismo, ma vi concorrono, in termini assai rilevanti, gli squilibri attuali tra nord e sud del mondo, tra i diversi livelli di sviluppo delle sue più grandi aree; vi concorrono i precari, instabili assetti geopolitici di una fase di transizione nei rapporti tra le superpotenze, e con l’emergere di nuove potenze o candidate a volerle diventare. La proclamata volontà di raggiungere la neutralità nelle emissioni di carbone entro il 2030, considerata indispensabile per evitare il disastro climatico, ha riguardato, peraltro con non trascurabili oscillazioni anche in alcuni dei suoi protagonisti, solo i Paesi considerati avanzati nello sviluppo. L’uso della formula “entro il 2030 o quanto prima possibile” dice di una perdurante problematicità nel perseguimento dell’obiettivo. Ma la questione centrale a questo proposito, e non solo a questo, è il veto opposto da Cina, India e Russia. Il fatto che la diversità di posizioni dipenda dalle differenti collocazioni di queste aree economiche-politiche nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, e quindi dal diverso peso e responsabilità di ognuna nell’attuale inquinamento del mondo, propone un’altra contraddizione insanata che concorre a bloccare una qualsiasi svolta ecologica. L’incapacità dei Paesi avanzati ad affrontarla anche attraverso un riequilibrio tra nord e sud del mondo, tra aree di sviluppo e sottosviluppo, è dimostrato anche al confronto di un episodio minore. Era stato previsto da parte dei Paesi avanzati un fondo per indennizzare i Paesi meno sviluppati, un fondo di 100 miliardi annui. Neanche questo impegno è stato rispettato, le diseguaglianze interne nei diversi Paesi minano nelle fondamenta la possibilità di dar vita a una politica ecologica, se non vengono, come non vengono, affrontate contemporaneamente. Le diseguaglianze esterne, quelle tra diverse economie, negate di fatto dalla politica dei Paesi che chiamiamo avanzati, impediscono la svolta nelle scelte politiche dell’insieme degli Stati. Il governo mondiale, qualche volta seppure isolatamente invocato, appare ancora un’utopia. Ma senza andare in questa direzione, con una politica di pace, tutto si costruisce.
Il movimento, le moltitudini di giovani che reclamano il cambiamento vedono lucidamente il tradimento delle promesse e lo combattono insieme ai suoi responsabili politici. «È ovvio che il vertice è fallimentare. L’imperatore è nudo», così ha dichiarato Greta Thunberg. Così l’ecologismo integrale si fa, in qualche misura, strada nella critica pratica dell’enunciato ecologismo politico-istituzionale. Questo movimento di generazione non è certo figlio degli ambientalismi radicali degli anni ‘60, dei Commoner, degli André Gorz, e nemmeno del movimento mondialista del fine-inizio secolo e forse nemmeno dell’Enciclica di papa Francesco, ma va per la sua strada. La sua autonomia dal potere è una grande chance, quando i potenti del mondo si rivelano impotenti di fronte all’attualità del drammatico problema del mutamento climatico, questi movimenti acquistano una potenzialità grande. Il movimento va ora per la sua strada, il suo futuro dipenderà in larga misura da sé stesso, ma anche da cosa e da chi incontrerà nel suo cammino.
© Riproduzione riservata