Buona la ventottesima. All’alba di una rovente Dubai poco sotto i 30 gradi di temperatura, al fotofinish, è cambiata l’aria di stremata rassegnazione dei delegati, e il summit mondiale sul clima Cop28 non si è chiuso come si era aperto, con frasi generiche e prive di impegni e il prevedibile e tristissimo arrivederci alla prossima Cop29 di Baku, Azerbaigian. Colpo di scena e cambio inatteso di scenario, ed ecco il “compromesso storico” siglato intorno alla inedita parola chiave “transizione dalle fonti fossili”, molto sostenuto da Usa e Cina, e presentato dall’abile sultano Al Jaber, la cui nomina alla presidenza della Cop28 aveva fatto storcere il naso a scienziati e ambientalisti soprattutto dopo l’imbarazzante video scovato dal Guardian dove sposava tesi negazioniste del cambiamento climatico sostenendo che “è da cavernicoli fuoriuscire dall’era fossile”.

Il presidente-petroliere della Cop28 ha invece potuto solennemente annunciare la grande svolta: “Nessuno ci credeva, siamo orgogliosi del nostro lavoro, è un accordo storico. Per la prima volta in assoluto c’è un linguaggio sull’uscita dei combustibili fossili”. Il documento finale approvato, sul quale nessuno avrebbe scommesso neanche un Dirham degli Emirati Arabi Uniti, impegna invece tutti i 197 Paesi – rappresentati da un record di 70.000 partecipanti -, ad “abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da raggiungere le emissioni zero entro il 2050 in linea con la scienza; ad accelerare le tecnologie a zero e a basse emissioni, tra cui, tra l’altro, energie rinnovabili, nucleare, tecnologie di abbattimento e rimozione come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori difficili da abbattere, e la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio; a triplicare la capacità di rinnovabili e a duplicare gli sforzi per l’efficienza energetica”.

E sono applausi liberatori in sala, con qualche mugugno per la blindatissima procedura del consenso gestita dal numero uno dell’azienda petrolifera di Stato degli Emirati che non ha previsto né domande né dibattito e nemmeno ripensamenti. Cosicché, con una rapidità mai vista prima ai summit climatici dell’Onu, sono scattati solo gli applausi con in prima fila a spellarsi le mani e ad alzare i pollici in segno di vittoria John Kerry inviato Usa per il clima, l’inviato speciale cinese Xie Zenana che già portò la Cina negli Accordi di Parigi del 2015, la spagnola Teresa Ribeira ministro per la transizione ecologica e inviato speciale Ue per il clima.

“I negoziati si stavano impantanando – rivela Xie Zenana – e Cina e Usa hanno presentato proposte congiunte”. Finalmente, dopo 8 fallimentari Cop dopo Parigi, una Conferenza delle Parti riparte recuperando e rilanciando l’obiettivo raggiunto alla storica Cop15 di Parigi il 12 dicembre del 2015, ovvero quello di riuscire a contenere l’aumento della temperatura globale entro un grado e mezzo rispetto all’epoca preindustriale. A 31 anni dall’inizio dell’andirivieni della diplomazia climatica mondiale dalla prima Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, paradossalmente proprio nella Dubai capitale dell’industria petrolifera, i delegati del mondo hanno ridisegnato il lungo percorso che porterà verso la fine dell’utilizzo dei combustibili fossili. Sembra un paradosso che sia accaduto nella terra dei petrolieri, ma dietro i dispositivi normativi della Conferenza c’è anche tanto business. Al Jaber, infatti, può esultare portando in primo piano la sua seconda mission industriale – che sta per diventare la prima -, poiché oltre ad essere ministro dell’Industria e della Tecnologia Avanzata e CEO della compagnia Nazionale petrolifera degli Emirati Arabi, settimo paese al mondo per produzione di petrolio e per emissioni di gas serra pro capite, dall’Oil and Gas passa tranquillamente alle rinnovabili essendo anche fondatore e CEO di Masdar, la “Abu Dhabi Future Energy Company” ovvero la seconda più grande azienda di energia rinnovabile al mondo, fondata nel 2006 e con mega investimenti in energia pulita in corso per 15 miliardi di dollari in 40 Paesi, e gestore degli impianti solari più grandi del mondo, impegnata nella decarbonizzazione e nel primo impianto di cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio da 5 milioni di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.

La svolta di Dubai comunque era imprevista e imprevedibile anche per il finora granitico blocco dei Paesi industrializzati a tutta C02, a partire dai grandi emettitori come Cina, India, Usa, Ue, Russia, Giappone con le loro economie più inquinatrici, che con il 49,2% della popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile. Messi di fronte alle responsabilità di rispettare i tagli promessi mai rispettati – meno il 45% entro il 2030 con target net zero entro il 2050 -, sono usciti dalle trincee della difesa di carbone, petrolio e gas e si sono impegnati piuttosto a triplicare le rinnovabili e a duplicare l’efficienza energetica entro il 2030. Anche se al voto finale mancavano i 39 rappresentanti dell’Alleanza delle piccole isole del Pacifico, condannate ad essere sommerse a fine secolo con questo ritmo di riscaldamento globale che innalzerà il livello degli oceani a fine secolo di circa un metro, è arrivato anche il loro sì all’accordo inatteso che mantiene in vita l’obiettivo “salvavita” della loro esistenza: la riduzione della velocità del riscaldamento globale.

Si attiva poi finalmente il Global Stocktake approvato a Parigi nel 2015. Si tratta di una sorta di primo “tagliando” alle azioni di ogni paese per verificare gli impegni solennemente presi a contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi globali al 2100 rispetto al periodo pre-industriale, e per la riduzione delle emissioni di Co2 del 43% entro il 2030. E si aggiunge oggi anche il meccanismo delle “perdite e dei danni”, il Loss and Damage, ovvero il Green climate fund che sarà riempito con 100 miliardi di dollari ogni anno promessi dai Paesi ricchi, per risarcire e sostenere i Paesi a più basso reddito e i più colpiti dall’emergenza climatica ma i meno responsabili. Si occuperà degli interventi di ripristini e di protezione dei territori da danni catastrofali prodotti da tempeste e inondazioni, siccità e carestie e dall’aumento del livello di oceani e mari, che in media costano 75 miliardi di dollari a semestre, come calcola Swiss Re Institute, con aumenti costanti, e solo per un terzo coperti da polizze assicurative.

Il punto di svolta di Dubai è dunque da ieri nelle due paroline che magicamente hanno messo tutti d’accordo: “Transition Away”. Per la prima volta figurano inserite a sorpresa in un accordo, al punto 28 sui combustibili fossili e la mitigazione delle emissioni-killer, insieme all’elenco di azioni e misure per cogliere l’obiettivo non scontato di restare sotto la soglia di 1,5 gradi di aumento della temperatura globale al 2100. Tra gli altri goals ci sono il raddoppio della media annua di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030; l’accelerazione degli sforzi verso la diminuzione graduale dell’energia prodotta dal carbone e verso sistemi energetici a zero emissioni nette, utilizzando combustibili a zero e a basso contenuto di carbonio ben prima o intorno alla metà del secolo; l’accelerazione delle tecnologie a zero e a basse emissioni tra cui le energie rinnovabili.

Anche il nucleare fa il suo ingresso ufficiale per la prima volta in un documento finale della Conferenza delle Parti, così come il riconoscimento del ruolo delle “tecnologie di abbattimento e rimozione, come la cattura e l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio, in particolare nei settori in cui è difficile abbattere le emissioni”. C’è poi un ruolo per i “combustibili di transizione”, categoria nella quale entrerà il gas. C’è l’accelerazione della riduzione delle emissioni di metano entro il 2030 e quelle derivanti dal trasporto stradale anche attraverso la rapida diffusione di veicoli a zero e a basse emissioni, e c’è l’eliminazione graduale degli “inefficienti sussidi” ai combustibili fossili che non affrontano né la questione della povertà energetica né i problemi delle transizioni energetiche da realizzare nel più breve tempo possibile. Il fabbisogno finanziario per l’adattamento climatico dei Paesi in via di sviluppo è poi stimato in un range da 215 a 387 miliardi di dollari all’anno fino al 2030, con la necessità di investire circa 4,3mila miliardi di dollari all’anno in energia pulita fino al 2030, aumentandoli poi a 5mila miliardi di dollari all’anno fino al 2050, per favorire le emissioni nette zero entro il 2050.

Dubai potrebbe segnare l’inizio della fine dell’era dei “fossil fuels”, altre due parole che per la prima volta entrano in un documento finale? Il compromesso al momento c’è, e coinvolge finalmente e a pieno titolo anche i paesi produttori ed esportatori di petrolio che finora erano schierati in modalità scontro in ogni Conferenza Onu sul clima. Sapremo presto se il mondo inizierà sul serio a frenare il conto alla rovescia dello scenario più estremo che proietta impatti climatici devastanti su popolazioni ed ecosistemi. Perché a fine secolo, senza correzioni di rotta, l’aumento della temperatura è oggi previsto dal Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici dell’Onu nel range tra 2,1 e 2,8 °C in più sulla media del periodo preindustriale 1850-1900, e attualmente le emissioni globali di gas serra sono previste in aumento dell’8,8% rispetto al 2010. Del resto, il pianeta sta bruciando un record via l’altro, e già questo 2023 è già nella storia come l’anno più caldo mai rilevato. La linea del fuoco degli oltre 2 gradi è il più temibile “punto di non ritorno” che bisogna assolutamente scongiurare. E l’Italia? È rimasta fuori dalle convulse trattative finali, con nessun rappresentante politico in sala nella plenaria dell’annuncio della storica intesa, e con il solo inviato speciale per il clima Francesco Corvaro.