Ci lascia un grande della letteratura
Cormac McCarthy, addio al cantore della frontiera che più di tutti ha raccontato l’essere umano
Erede della tradizione faulkneriana del romanzo americano, discendente di Melville e Steinbeck, McCarthy se ne è andato in punta di piedi così come ha vissuto. Il suo sguardo tagliente ci mancherà molto
«Non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte» scrisse in “Oltre il confine“, uno dei suoi capolavori, che racconta il viaggio iniziatico del giovanissimo cowboy Billy e del suo fratellino Boyd, a cavallo tra Texas e Messico, nel secondo romanzo dell’epica Trilogia della Frontiera. Purtroppo, nella scia di dolore che percorre questi giorni si inserisce la scomparsa di un grandissimo autore come Cormac McCarthy. Ognuno ha il suo modo di vivere, e di morire.
E McCarthy se ne è andato così come ha vissuto, in punta di piedi, lontano da gloria e riflettori, restio a qualsiasi visibilità. Non ha quasi mai concesso interviste «fanno male alla testa di uno scrittore» amava giustificarsi «se hai qualcosa da dire: scrivi».
È stato il figlio John, insieme al suo editore, ad annunciare la sua scomparsa a 89 anni. Si è spento nella sua casa di Santa Fe, in New Mexico. Il profondo Sud degli Stati Uniti da sempre sfondo e, insieme, protagonista delle tante storie che ha raccontato: «Le cose separate dalle loro storie non hanno senso. Sono semplici forme. La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale appartiene, perché essa è quel luogo», ammoniva.
Lascia un ultimo lavoro “Il Passeggero” – cui ha dedicato quasi dieci anni – uscito in Italia per Einaudi appena un mese fa. E a settembre arriverà, postumo, il suo seguito: “Stella Maris”. Una sorta di testamento letterario in due romanzi. Ha attraversato una vita professionale divisa a metà. Dagli anni difficili in cui si narra che vivesse quasi in povertà perché i suoi libri vendevano appena qualche migliaio di copie, agli anni della gloria planetaria con titoli che hanno conquistato il mondo – due su tutti – entrambi diventati film: La strada che gli è valso il premio Pulitzer per la letteratura nel 2007 e Non è un paese per vecchi, che è diventato un capolavoro anche nella versione cinematografica firmata dai fratelli Coen, che vinse quattro premi Oscar.
Ma la storia d’amore col cinema è stata ben più lunga e molte altre sue opere sono finite sul grande schermo, da Cavalli Selvaggi a Sunset Limited, da Figlio di Dio fino a The Counselor diretto da Ridley Scott. In entrambe le vite, McCarthy è rimasto fedele a sé stesso e al suo universo narrativo. Western e apocalittico, antico e moderno, piantato nella tradizione e insieme futuristico.
I suoi libri hanno il tratto dei classici e, quasi sempre, la potenza di un esordio. Il suo libro che ho più amato – e che forse è il suo capolavoro – è La strada: la storia del viaggio crepuscolare e doloroso di un padre e di un figlio senza nome, circondati da un’umanità allo stremo, in un pianeta distrutto da una catastrofe misteriosa.
Un libro che diventa ancora più potente, quando lo rileggi con gli occhi di padre, come ha giustamente osservato Massimo Recalcati: «La vita di un figlio modifica non solo il senso del tempo, ma il senso stesso del mondo. È un’esperienza di radicale decentramento che fa saltare ogni versione monologica della vita. Qualunque compito educativo mi ponessi sarebbe stato vano se prima non avessi fatto mia questa verità che nel romanzo di McCarthy mi leggeva: è il figlio che modifica il senso del mondo, è il figlio che insegna con la propria esistenza un’altra storia sul mondo».
Erede della tradizione faulkneriana del romanzo americano, discendente di Melville e Steinbeck, McCarthy era probabilmente l’ultimo grande scrittore americano, l’ultima voce di un’anima profonda che non sarà mai più raccontata con la stessa precisione. Ha raccontato l’uomo, prima di tutto e su tutto. La sua capacità di amare e di distruggere, la sua dignità e la sua vigliaccheria, il suo eterno tentare («È così che fanno i buoni. Continuano a provarci. Non si arrendono mai»), il suo eterno fallire. L’uomo e il suo destino. Con una speranza possibile, con la ricerca di un senso, di una trascendenza («La misericordia verrà»), in fondo, di Dio («Si potrebbe pensare che se una persona aspetta per ottant’anni che Dio entri nella sua vita, beh, alla fine Dio ci entra. E se non succede bisogna comunque pensare che Dio sa quello che fa. Altrimenti non vedo che definizione si possa dare di Dio»).
Uno sguardo schivo, tagliente e lucente, spesso amaro, che mancherà molto. Ma come ha scritto proprio ne La strada: «Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. ‘Ecco’, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te’». Noi, per nostra fortuna di lettori, abbiamo avuto Cormac McCarthy. Che di grazia e bellezza, anche in un mondo dolente e morente, ci ha illuminato.
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