Questo testo di Corrado Augias rappresenta la sintesi di pensiero e vita di un intellettuale amato dal grande pubblico – circostanza rara in un paese che non ama la cultura – che, va detto subito, contiene una miriade di informazioni e citazioni (consiglieremmo a un giovane di prendere a riferimento l’esemplare bibliografia alla fine del libro per costruirsi una buona preparazione).

Parliamo di un “testo” perché “La vita s’impara” (Einaudi) non è semplicemente un’autobiografia né un saggio politico né una fine ricognizione dei tratti salienti della “storia democratica” dell’Italia, ma tutte queste cose, e parecchie altre, miscelate con il tono saggio dell’autore: leggendo queste pagine ci senti la voce, di Augias. Verrebbe voglia di dire che il tono del libro è quello dei moralisti francesi se non di Montaigne, che non a caso, come vedremo, rientra nella grande galleria dei pensatori di riferimento dell’autore: ad essere sbrigativi, per Montaigne è il caso che governa il mondo.

La multiforme e lunga esperienza di vita di un quasi novantenne accompagna il testo, con saggia ironia e mano ferma nel tratteggio del “mondo di ieri”, così che ne viene fuori un “diario in pubblico” non letterario come quello di Vittorini ma ugualmente impastato di biografia e cultura. Il tutto con importanti sprazzi di attualità, nel quale si alternano riflessioni su Machiavelli e New York, Foscolo e Berlusconi, la Rai di Guglielmi e Guicciardini, Scalfari e la Roma liberata, Robert Kennedy e Spinoza, Lucrezio, Nietzsche: fatti e pensieri insieme. La prima parte del testo è, come accennato, uno svolazzare di rimembranze nel turbinìo di almeno mezzo secolo di giornalismo, letture, passioni e città – la sua Roma e la sua Parigi entrambe illuminate dal fascino del ricordo e di bellezze oggi cancellate, e di considerazioni politiche, la “bella sinistra” di un tempo, la vecchia Dc del potere accennata quasi con indulgenza, fino a una stroncatura senz’appello di Silvio Berlusconi, quasi un’invettiva: «Ha lasciato una pesante eredità, corrotto costumi già di per sé molto cedevoli, corrosi il senso d’appartenenza alla Repubblica, badato solo ai propri interessi…» tanti che «avergli concesso funerali di Stato ha rappresentato un affronto per quanti lo Stato hanno effettivamente servito pagando un prezzo anche molto alto».

Sulla politica di oggi, tranne qualche gelida riga sui governanti attuali, Augias non insiste, come ritraendosi per carità di patria, e in fondo fa bene perché avrebbe finito per turbare la grazia del racconto, preferendo ricostruire il senso e i nessi della nostra storia nazionale, sempre per cenni ma assai densi, da Machiavelli a De Sanctis, e interrogandosi sullo storico problema del carattere degli italiani e delle ragioni «della bassa considerazione che abbiamo di noi stessi» o, come diceva Gadda, «la porca rogna dell’autodenigrazione». Ma poi, come se la penna avesse deciso lei la strada da prendere, il libro diventa una notevole meditazione culturale, filosofica.

È l’Augias che tira su le reti di una decennale ricerca a partire dai lunghi studi sulla regione cristiana, sull’ebraismo, su Paolo di Tarso. E sulla grande filosofia, dal già citato Montaigne al prediletto Spinoza sino a Nietzsche e Freud: a quest’uomo di sinistra Marx in fondo dice poco. Le pagine su Gesú sono forse le più intellettualmente vibranti del testo, e gli interrogativi su una fede «ridotta, quando sopravvive, a un ron-ron di pigre abitudini, rare le domande di fondo, i sussulti del dubbio, spariti i miracoli, a parte quelli di ridicoli ciarlatani»: è il non credente Augias in un certo senso a spronare a fare i conti con la fede e anche questa è in sé una lezione culturale e morale di una certa altezza. Via via la meditazione inevitabilmente va in crescendo non a caso sfiorando un altro grande amore, la musica, e si immalinconisce: ecco che arriviamo all’ultima pagina, Corrado Augias si congeda da noi che chiudiamo il libro, un pochino commossi.