Il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Mariastella Gelmini, nel corso di un’audizione parlamentare ha rilanciato il regionalismo differenziato e il federalismo fiscale che a suo avviso «restano temi importanti dell’agenda politica». Ma la circostanza non risulta. Il governo Draghi è di unità nazionale e pochi temi risultano divisivi come quelli richiamati dalla ministra. L’agenda è già intasata e l’unica “attrazione” possibile verrebbe dalla riforma fiscale, tema a sua volta già divisivo ma che almeno rientra nelle riforme sollecitate dall’Unione europea con l’obiettivo di eliminare le distorsioni del prelievo e della distribuzione delle risorse (contrasto all’evasione, riordino degli incentivi e così via) e non con quello di ripartire le entrate e le spese tra livelli territoriali di governo.

Il federalismo fiscale e il regionalismo differenziato sono stati temi sulla cresta dell’onda negli anni della grave crisi finanziaria del 2008 e in quelli immediatamente successivi, fino al governo Gentiloni, poi ripresi con forza dalla breve esperienza del governo Conte I, a trazione leghista, e per iniziativa della ministra Stefani. Da allora è cambiato il mondo. La pandemia ha mostrato i limiti enormi di un regionalismo dissennato. Fatti, norme e sentenze hanno ribadito la cogenza del ruolo dello Stato in materia sanitaria (una delle materia della cosiddetta “devolution”) e anche oltre, a tutela di interessi unitari. Non si tratta di riprendere un dibattito asfittico sul centralismo, ma di ammettere onestamente che della ripresa del ragionamento interrotto, di cui parla nell’audizione la ministra Gelmini, non v’è neanche una condizione, mentre ve ne sono tantissime di tipo contrario.

Condizioni politiche: un centrosinistra, con il Partito Democratico in testa, in passato assai ambiguo su questi temi, che ora ha tutto l’interesse a marcare differenze rispetto alla Lega, nonchè la tendenza di Draghi a evitare di inserire in agenda le “bandierine” dei partiti. Condizioni culturali: l’assai accresciuta consapevolezza dell’opinione pubblica e del ceto intellettuale sul disegno di “secessione dei ricchi” che è sotteso a un certo spirito che anima queste iniziative. Tra l’altro anche solo accennare a una devolution di tipo sanitario dopo che la Lombardia è diventato un caso mondiale, però negativo, appare fantascienza. Infine, condizioni di tipo tecnico: per realizzare il federalismo fiscale e il regionalismo differenziato occorrono in ogni caso delle condizioni preliminari che sono molto lontane dall’essere state conseguite, a cominciare dalla definizione e dall’attuazione dei costi standard, il che significa superare il meccanismo della spesa storica per il trasferimento delle risorse statali.

A scanso di una nutrita retorica secondo cui il Sud sottrae risorse al Nord, si è chiarito in modo definitivo che la situazione attuale penalizza gravemente i meridionali sul piano delle risorse e dunque dell’effettività dei diritti perché il criterio della spesa storica non misura l’efficienza del costo del servizio e non garantisce, come dovrebbe secondo Costituzione, standard di diritti fondamentali, settore per settore, effettivamente valevoli su tutto il territorio nazionale. Basti pensare agli asili nido, la cui scarsa presenza nel Sud è oggetto di aspre segnalazioni dell’Unione europea e oggi rientra negli obiettivi di coesione sociale individuati dal Recovery Plan. Insomma, in questa fase ha senso parlare di tutto tranne che di certe iniziative. A meno che non si vogliano mettere in discussione la tenuta del governo Draghi e la doverosa riduzione del gap tra Nord e Sud.