Da oltre un anno il governo italiano parla del Piano Mattei per l’Africa, riannunciato da ultimo alla conferenza sul clima di Dubai. Ad oggi il Piano pare una cornice per raccogliere sotto la regia di Palazzo Chigi varie iniziative di ministeri ed enti locali. Sarebbe invece una opportunità per ripensare finalmente quale può essere il ruolo dell’Italia verso quei paesi in via di sviluppo che sono fuori dal circolo dei nostri alleati occidentali, a partire dall’Africa. L’Italia non ha una politica di cooperazione allo sviluppo all’altezza di un paese del G7. Il budget italiano per la cooperazione è di appena sei miliardi di euro l’anno, di cui una buona parte spesi in Italia per l’assistenza ai migranti. La Francia e il Regno Unito, entrambi con governi di centro o centrodestra, spendono quindici miliardi l’anno ciascuno. Per fare un paragone, quindici miliardi sono quanto il governo italiano ha stanziato per il taglio dell’Irpef e cuneo fiscale nel 2024.

Lo sforzo organizzativo sul terzo settore

L’agenzia per la cooperazione allo sviluppo francese, Agence Française de Développement, eroga da sola ogni anno oltre dieci miliardi di prestiti e contributi a fondo perduto verso governi esteri. Al di là dei numeri, la cooperazione allo sviluppo è spesso finita ad essere un supporto alle imprese italiane oppure un tesoretto per gestire, con successi altalenanti, le crisi diplomatiche ed umanitarie del momento. Gran parte dello sforzo organizzativo resta poi sulle spalle del terzo settore o demandato a intermediari che l’Italia finanzia. Promuovere lo sviluppo significa innanzitutto avere un approccio paritario, di lungo periodo nelle relazioni con questi paesi. Questo era l’approccio di Mattei e a cui meritoriamente si ispira, nelle intenzioni, il governo. Ma non si può fare cooperazione senza essere saper rispondere alla domanda su cosa l’Italia sa fare e cosa può offrire al mondo per renderlo più vivibile per tutti. Qual è il contributo distintivo che possiamo portare alla comunità internazionale? In altre parole, quale è il nostro interesse nazionale inteso non come la necessità del momento, ma come punto di forza (e di sforzo) di un paese.

L’Italia senza risposta

La risposta di Mattei negli anni Cinquanta e Sessanta era semplice e potente: sviluppare con l’ENI una industria per la raffinazione nei paesi esportatori di combustibili fossili che si stavano emancipando dalle ex potenze coloniali europee. L’Italia di oggi non ha una risposta a questa domanda anche perché la risposta oggi è molto più complessa, basti vedere il recente White Paper on International Development del governo conservatore britannico. Fare cooperazione allo sviluppo oggi significa, per esempio, saper fare ingegneria finanziaria. Le risorse necessarie per la transizione climatica e lotta alla povertà – si parla di tre mila miliardi di dollari l’anno – vanno oltre le disponibilità di stati e banche pubbliche. Nel nostro modello economico il capitale è in mani private e quindi servono strumenti finanziari per mobilitare questi capitali verso paesi a maggior rischio. Ma non c’è solo finanza. I paesi in via di sviluppo cercano soluzioni tecnologiche per uno sviluppo industriale sostenibile, per la continuità energetica e riduzione delle emissioni attraverso l’elettrificazione, e per la prevenzione dei disastri ambientali. Oltre alle risorse servono capacità manageriali e ingegneristiche per la progettazione di nuove infrastrutture che possano raccogliere finanziatori. Un ulteriore esempio è l’enorme crescita del settore delle telecomunicazioni in Africa, dove mancano partner industriali. Infine, molto è cambiato in meglio dai tempi di Mattei: oggi sappiamo che non c’è programma, umanitario o industriale, che funzioni senza mettere al centro chi vive in quei paesi, e non solo di chi li governa.

Un nuovo punto di mediazione

La formula della cooperazione internazionale è in fondo sempre la stessa dai tempi di Mattei: trovare un punto di incontro tra le esigenze dei paesi in via di sviluppo, le competenze industriali (e del terzo settore) dell’Italia, e le esigenze dell’agenda politica del momento. Per Mattei il punto di mediazione era l’ENI: una partecipata statale con un ethos pubblico esemplificato da un centro studi “di sinistra” e una dirigenza “democristiana”. Questo punto di mediazione va oggi ricostruito, e va ricostruito altrove. Farlo richiede competenze, strumenti ed esperienze che l’Italia, rispetto agli altri paesi del G7, ha trascurato. Basti pensare all’assenza fino a pochi anni fa di una agenzia per lo sviluppo o di un ente per la finanza allo sviluppo, ruolo che oggi ha CDP. Questa dovrebbe essere l’ambizione della cabina di regia indipendente che la Presidente del Consiglio ha voluto a Palazzo Chigi. A sessanta anni dalla morte di Mattei, abbiamo il dovere di darci una risposta all’altezza del nostro tempo, e non del suo.

Umberto Marengo

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