Il caso
Cosa ha avuto in cambio Haftar per liberare i pescatori di Mazara del Vallo
“Antartide” e “Medinea” hanno acceso i motori intorno alle 15 ora italiana destinazione Mazara del Vallo. A bordo dei due pescherecci i 18 pescatori prigionieri dal primo settembre nelle carceri di Bengasi del generale Haftar. Tre ore prima Giuseppe Conte e Luigi di Maio erano a colloquio con il Generale che non è l’interlocutore istituzionale dell’Italia che ha invece rapporti diplomatici con il Governo nazionale di Tripoli (Gna) girato da Al Serraj.
Un colloquio dai contenuti ancora top secret ma che è stata la svolta di questa brutta faccenda durata ben 107 giorni. Decisamente troppi. Altre volte era capitato che i nostri pescherecci si trovassero nei guai per aver superato i confini della pesca. Sequestri o arresti risolti ogni volta in breve e con qualche aiuto economico. Questa volta la vicenda si era messa subito male: lunghe giornate senza info dei nostri; notizie false filtrate ad arte per drammatizzare la situazione (“sono spacciatori”); richieste irricevibili (la liberazione di quattro trafficanti libici detenuti in Italia) a cui seguivano settimane di silenzi. Ora questa storia finisce bene. E ne comincia un’altra: quale è stata la moneta di scambio della liberazione.
Prima di tutto va detto che è «stato un sequestro diverso dagli altri, se non si parte da qui – spiega la nostra fonte tecnica – non si capisce neppure perché il presidente Conte oggi è andato di persona a Bengasi col ministro Di Maio e abbia incontrato Haftar». I sequestri in Libia – ne abbiano avuti tanti negli anni – sono stati in genere il canale di finanziamento delle varie bande/tribù militari che impediscono alla Libia di essere il paese che potrebbe essere. Dunque soldi, visibilità e riconoscimenti all’autorità di turno sono stati la moneta del riscatto.
Questa volta è stato “un sequestro politico”. Da subito i 18 pescatori sono stati una pedina nella mani del generale Haftar che da anni conduce la battaglia per il controllo non solo di tutta la Libia ma anche di pezzi interi del nord Africa. Il tutto grazie all’appoggio di Russia (Putin sta inviando reparti speciali in Libia), Emirati, Francia, Arabia Saudita ed Egitto, “il più interessato”. L’Italia ha invece tradizionalmente rapporti esclusivi con Tripoli e la Gna, il governo nazionale libico riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Al Serraj. È con lui che stringiamo da anni accordi, con fortune alterne, per cercare di fermare il traffico di essere umani dalla Libia.
È certo che Haftar abbia preteso, per la liberazione, “un gesto politico esplicito” del governo italiano come ad esempio la presenza di Conte e Di Maio a Bengasi. Dunque le polemiche sulle “passerelle” e gli spot sono per una volta fuori luogo. Così come è certo che il 6 dicembre, Al-Namroush, ministro della Difesa del governo di Serraj, era a Roma per rinnovare un accordo politico-militare con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. In quella occasione il libico avrebbe suggerito ai nostri di cercare la mediazione francese per risolvere lo stallo sui pescatori. E il favore del Cairo che cerca così di abbassare la pressione per il caso Regeni. Ieri Bengasi ha fatto uscire una nota per “elogiare il ruolo che il governo italiano gioca nel sostegno ad una crisi libica”. Il ministro Guerini ha voluto elogiare “chi ha saputo lavorare in silenzio”.
I 18 pescatori sono liberi grazie ad un incrocio di favori diplomatici. Il cui punto di caduta è presto per dire. C’era anche Rocco Casalino ieri a Bengasi. In una delle chat di lavoro gli è partita l’immagine della sua geolocalizzazione. Un puntino rosso tra gli hangar dell’aeroporto di Bengasi. Vero o falso che sia per molto meno poteva saltare tutta la trattativa.
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