Cosa ha rivelato Gherardo Colombo su Tangentopoli, il ricatto dei Pm ai politici

Un tentato golpe nel 1992 tentò di rovesciare la democrazia. A denunciarlo oggi è Enzo Carra. Sì, perché Enzo Carra parla. Parla ancora. A tutti. L’oscenità delle manette con cui lo volevano umiliare non lo ha messo a tacere. È morto lo scorso 2 febbraio, l’ultimo portavoce della Democrazia Cristiana. Ma poco prima di morire ha affidato all’amico Vincenzo Scotti, patron della Link Campus e della casa editrice Eurilink, un testo. Un manoscritto denso di rivelazioni, informazioni, ricostruzioni. Un memoriale inestimabile, soprattutto perché costruisce un terreno di confronto con la controparte – i magistrati della Procura di Milano – che ci permette di leggere anche i disegni dei Pm senza più tanti filtri. Senza infingimenti.

L’Ultima Repubblica – è il titolo che ha dato Carra – ricorda tutto, con una lucidità puntuale. E per puntellare il suo racconto di quel periodo di legalità sospesa ha invitato a dialogare uno dei suoi accusatori. Una figura sui generis: quella di Gherardo Colombo. Integrato nel gruppo di punta e dunque tra i Pm più direttamente coinvolti nel clamoroso arresto di Carra, Colombo è stato anche tra i pochi protagonisti di quegli anni a saperli rileggere con sguardo critico. Fu senz’altro sua una delle firme che condussero dietro le sbarre l’allora portavoce di Arnaldo Forlani, appunto Enzo Carra, a nome del pool milanese di Mani Pulite il 19 febbraio 1993. Bisognava celebrare il primo anniversario di Tangentopoli. Ci voleva più di un brindisi. Un brindisi “col botto”. Fu allora che la storia di quell’inchiesta assunse i contorni di qualcosa d’altro. Di più oscuro. Ed è lo stesso Gherardo Colombo a rivelarlo. A scriverlo. Rispondendo al dialogo con Carra, l’ex Pm rievoca gli eventi di quei giorni di Mani Pulite, gli errori e gli eccessi.

Quello in epigrafe: quando il colto, acuto, placido Carra venne arrestato (e ammanettato, come se fosse socialmente pericoloso e aggressivo) per essere mostrato come un trofeo di caccia davanti allo sguardo famelico delle telecamere. Un arresto insostenibile, gratuito. Come quello di molte altre vittime di quella furia giacobina. Che si può meglio interpretare con una dichiarazione disarmante di Gherardo Colombo, che nella sua introduzione squarcia il velo sul segreto dell’operazione Mani Pulite: “Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi di quegli eventi) della nomina di Martinazzoli, la politica avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale”. Lette queste parole, abbiamo chiuso gli occhi e inspirato. Poi abbiamo riletto: e sì, è tutto vero. A pagina 13 del libro di Enzo Carra il giornalista fa dire a Colombo come funzionava il meccanismo del golpe. Lo spinge ad un controinterrogatorio gentile che lo porta ad ammettere.

Veniamo a sapere che il meccanismo dello scambio – come lo definisce lo stesso Colombo – funzionava con il do ut des tra due poteri: gli eletti che avessero ricostruito notizie eventualmente possedute e avessero fatto oltre alla delazione anche un’abiura, disconoscendo il proprio mandato democratico e accettando di dimettersi “temporaneamente” (sic) nelle mani del potere giudiziario, avrebbero ricevuto dai Pm di Mani Pulite un salvacondotto capace di farli attraversare indenni l’Acheronte di Tangentopoli. Nessun problema avrebbero più avuto con la giustizia coloro i quali avessero accettato di “abdicare” alla vita pubblica. E che cos’è, la vita pubblica, se non la partecipazione democratica, il confronto elettorale, il dibattito culturale che secondo la Costituzione viene organizzato con il mezzo principale di quei pilastri della democrazia che sono i partiti? I sospetti tratteggiati nei discorsi di Bettino Craxi e nelle lettere di alcuni dei condannati a morte dal pool parlano chiaro. “Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”, scriveva Sergio Moroni all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, prima di spararsi.

Ne L’Ultima Repubblica quei fantasmi prendono forma, assumono le sembianze umane di quel pool che abbiamo imparato a conoscere bene. Come a dover aderire a un disegno sinistro, i Pm provano a buttare giù un sistema, un architrave democratico composto di partiti. Di scuole politiche. Colombo prova poi, nel testo, a rifiutare la responsabilità della storia: “I partiti sono morti da soli”, glossa a pagina 13. Poi ci torna a pagina 17: “Abbiamo pensato che la fine dei partiti italiani, avvenuta tra il 1993 e il 1994, sia stata una condanna della storia e non dei tribunali. Abbiamo pensato che la cancellazione del nostro quadro politico, creatura della guerra fredda, fosse la conseguenza positiva dello spegnersi di un lungo dopoguerra. Sì, certo, c’era stata anche la Grande Inchiesta a rendere impresentabili partiti corrotti o addirittura covi di personaggi dediti a pratiche previste come reati dalla legge italiana. ‘Finalmente ce ne siamo liberati’, gli italiani salutarono così l’insperato addio dei partiti”. Ci sarebbe da fare un’analisi filologica attenta, su tutto il passaggio di Colombo: “la politica”, sempre tra virgolette, a sminuirla.

La cancellazione del quadro politico definita solo come “positiva”. La Grande Inchiesta con le iniziali maiuscole, a sottolinearne la sacralità. Torniamo a Carra: il talento giornalistico, il fiuto politico, l’umanità profonda dell’ultimo portavoce della prima repubblica – da qui L’Ultima Repubblica – tornano a far parlare i suoi amici, riuniti per un ennesimo saluto fatto di idee e di rinnovate intese. Al primo evento di presentazione del libro, ospitato lunedì scorso dalla Lumsa a Roma, a moderare c’erano i due più grandi confidenti di Carra, i giornalisti Paolo Franchi e Stefano Folli. Riformista il primo, repubblicano il secondo. Sono loro a rievocare gli anni in cui il potere politico dovette cedere l’egemonia al potere giudiziario. Davanti agli occhi lucidi del giovane Giorgio Carra, che ha assistito suo padre nel portare a termine questo suo memoriale, sfilano i ricordi di un pezzo di storia. Vincenzo Scotti “quasi commuove”, come chiosa Franchi.

In prima fila, Mario Segni e Luigi Zanda. Dietro di loro c’è Flavia Piccoli Nardelli, appena nominata a capo dell’Associazione delle istituzioni culturali italiane, accanto a Michele Anzaldi (Iv). Uomini e donne che hanno contribuito con senso dello stato a costruire quell’ossatura della democrazia, i partiti politici, le istituzioni democratiche, che qualcuno forse avrebbe preferito vedere morte. “I corpi intermedi… esisteranno ancora i corpi intermedi?”, si chiede Gherardo Colombo a pagina 18 dell’introduzione. “Chissà che non si arrivi a una forma assai più diretta di democrazia o all’affermazione di una forma di dittatura della massa, sulla falsariga di quel che accadeva ai tempi di Ponzio Pilato”. Per ora, il potere è nelle mani degli elettori. Il pool non colpisce più. E non c’è più Enzo Carra, ma rimangono le sue parole a illuminarci: il golpe armato di toga e maglietto ha disarcionato una classe dirigente e l’ha provata a sostituire con populisti e giustizialisti. Prenderne atto è essenziale per farsi gli anticorpi.