Ieri dalla Sala stampa del Senato è partito ufficialmente il dibattito politico sulla riforma costituzionale della forma di Governo. Una riforma più volte annunciata dal Governo, in realtà già dalla campagna elettorale di Giorgia Meloni, ma al momento ancora non formalizzata in un testo. Battendo tutti nei tempi, in primis lo stesso Governo, il Senatore Renzi ha presentato un ddl focalizzato sull’aspetto più rilevante del mutamento della forma di Governo: l’elezione e i poteri del Presidente del Consiglio.

La formula 

Nel nucleo essenziale essa prevede l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente del Consiglio dei ministri contestuale all’elezione delle Camere; il rinvio del meccanismo elettorale ad una futura legge elettorale; l’assunzione da parte del Presidente così eletto della piena responsabilità politica del Governo attraverso, in primo luogo, la nomina e revoca dei ministri; la permanenza del rapporto fiduciario con le Camere: tolta la fiducia iniziale (conseguente all’elezione diretta) il Parlamento può sempre nell’arco della legislatura porre fine all’esperienza del governo; la previsione della regola del simul/simul: la sfiducia del Parlamento al Presidente eletto interrompe la legislatura e si torna a votare.

È poi previsto un meccanismo assai interessante e originale: considerata l’esigenza di non sottoporre l’Esecutivo a continui rischi di sfiducia, nel caso di voto contrario del Parlamento ad un provvedimento su cui è posta la questione di fiducia, il Presidente del Consiglio può chiedere al Presidente della Camera interessata di ripetere la votazione a breve giro (già il giorno successivo). Il modello è quello che Renzi ha più volte ribattezzato del “Sindaco d’Italia” che ha avuto il pregio di rendere stabili i governi locali.

L’analisi

Provo a riassumere alcune motivazioni per cui ritengo che una tale proposta costituisca una forma interessante di razionalizzazione della forma di governo parlamentare/assembleare che andrebbe seriamente considerata dalle altre forze politiche.

La prima è che la crisi della democrazia dei partiti ha prodotto una ormai permanente difficoltà del meccanismo elettorale di produrre unità nel momento elettorale. Un nuovo assetto costituzionale non può prescindere dal riportare al centro il cittadino “arbitro”, secondo la bella ed efficace espressione di Roberto Ruffilli. Nella proposta Renzi il cittadino torna arbitro ed il suo voto conta davvero, poiché individua chi governerà presumibilmente per 5 anni.

La seconda è che le coalizioni che si presentano alle elezioni sono ormai divenute cartelli elettorali che hanno l’unico obiettivo di vincere e non di governare e che dimenticano il giorno dopo il programma che hanno presentato agli elettori. Con questa proposta, invece, si tolgono alibi al Presidente eletto che non può nascondersi dietro veri o presunti ostacoli alla realizzazione del suo programma che dipende dalla capacità che avrà di comporre la squadra di governo e di guidarla.

La terza è che il Presidente del Consiglio non ha poteri reali sulla “sua” maggioranza e interlocuzione reale con il Parlamento come istituzione e tale debolezza si riverbera in debolezza nel contesto europeo e internazionale. Un Presidente che ha dinanzi 5 anni ha ragionevole continuità temporale di relazioni e possibilità di essere preso “sul serio” nel contesto internazionale.

La quarta è che tale debolezza obbliga il Presidente della Repubblica a fare continuamente da stampella al Presidente del Consiglio e inevitabilmente conduce verso una torsione dello stesso ruolo presidenziale: è la seconda volta che rieleggiamo un Presidente della Repubblica. Il che dovrebbe far riflettere sulle patologie orami irreversibili dell’attuale sistema politico e parlamentare.

Due avvisi ai naviganti in conclusione. Il primo è che nessuna riforma costituzionale ha, in sé e per sé, poteri miracolosi e nessuna è così perfetta da non comportare rischi. Tuttavia è la direzione che conta: la razionalizzazione della forma di governo parlamentare (con rafforzamento del Presidente del Consiglio) è ormai ritenuta da tutti indispensabile. Il secondo è che le riforme che durano ed hanno successo sono quelle condivise: occorre dunque un grande patto e lo spirito di operare “sotto il velo di ignoranza” e per il solo bene comune.

Annamaria Poggi (Professore Ordinario Università Torino)

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